Davide Van De Sfroos festeggia 25 anni di carriera
Per festeggiare i 25 anni di carriera Davide Van de Sfroos pubblica una raccolta di 49 brani della sua discografia e si prepara ad infiammare l’Unipol Forum con il suo “Van de Sforum”
Il cantautore monzese di nascita e comasco d’adozione Davide Van de Sfroos da 25 anni porta in giro le sue canzoni in dialetto laghèe. Per celebrare 25 anni di carriera l’8 novembre esce “Van de Best“: una raccolta di 49 brani che hanno segnato la sua carriera reincisi per l’occasione.
Il 23 novembre invece ci sarà una grande festa all’Unipol Forum di Assago: il “Van de Sforum”. Un’occasione per far cantare e ballare il suo affezionatissimo pubblico. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa di più di queste due novità e della sua carriera.
Ciao Davide, benvenuto su The Soundcheck. Partiamo dall’album in uscita: Van de best è una raccolta di 49 successi reincisi per questa occasione. Cosa ti ha guidato nella scelta dei brani da riproporre?
Sapevamo che avremmo dovuto fare un gran lavoro per raccogliere più brani possibili tra quelli che la gente voleva ascoltare di nuovo, tra quelli che avevano fatto parte una parte importante della mia storia. Non soltanto i tormentoni, ma anche quelle canzoni che magari erano rimaste un po’ nascoste tra un disco e l’altro.
La rosa era molto ampia e quindi abbiamo inserito parecchie canzoni energiche come “Il duello“, “Cau boi”, “(La ballata del) Cimino”, “La balera” e via dicendo, ma anche “Il re del giardino”, “Colle Nero“, “40 pass”, “La figlia del tenente”. Ci concederemo anche alcune versioni magari con pianoforte invece che con l’arrangiamento originale.
È stato un lavoro sicuramente meticoloso, ma anche molto sereno perché sapevamo sin da subito che tutta la produzione di questi anni non poteva entrare in un solo best of. Abbiamo quindi pensato di farne uno il più nutrito possibile; poi, se ci sarà un capitolo due, metteremo tutto quel che manca. Abbiamo dato la priorità ovviamente alle canzoni più vecchie, poi quando siamo arrivati a 49, alché la domanda è stata: “Perché non 50?”. La risposta è che 50 non ci stavano sul vinile, avremmo dovuto fare un vinile non solo per una canzone.
Abbiamo cominciato a mettere sul tavolo i brani che per noi sono stati importanti. Li abbiamo registrati su tre piattaforme di ripresa differenti: Carugo, Brescia e Milano con tre fonici differenti, con un’equipe che spostava musicisti di qua e di là, ma anche musicisti raddoppiati: doppio batterista, triplo batterista… una folla di persone che hanno aiutato il mio classico set di compagni di viaggio suonatori. Loro sicuramente si sono fatti in quattro.
Il lavoro è stato interessante e io ho cantato e suonato tutte le mie 49 canzoni in duplice copia. Quindi immagina che avremmo fatto un centinaio di take in tre giorni.
Tanto per rimanere nei record dello stacanovismo, mi sono messo anche a firmare 2000 cartoncini in 2000 copie di vinili, tutto a mano.
Come è stato risuonare questi brani oggi?
Nel “Van de best” sicuramente ho avuto la possibilità di indossarli di nuovo oggi. È stato bello perché mi sono reso conto che mi vanno ancora bene. Non è la stessa cosa coi vestiti che ho nell’armadio: trovo delle vecchie camicie che mi piacevano, dei pantaloni e non ci entro più. Ci sono state variazioni fisiche, ci sono stati di mezzo tanti anni ed è ovvio che devi fare i conti anche con la tua trasformazione fisica.
Reindossare dei brani potrebbe anche darti la stessa spiacevole sorpresa, “Io ‘sto pezzo non riesco più a farlo, oppure son cambiato troppo”. Invece devo dire che li ho ritrovati ancora miei. Sono stati miei per tutti questi anni, li ho cantati di volta in volta su tutti i palchi e mi sono reso conto che averli continuamente frequentati e rieseguiti me li ha fatti rimanere incollati addosso come dei tatuaggi.
In alcune versioni non capisci quasi nemmeno la differenza, in altre versioni mi son concesso la libertà di cambiare leggermente degli arrangiamenti che già all’epoca su disco non mi avevano convinto più di tanto e già dal vivo li suonavamo in modo differente. Questo fa parte del tempo che passa, del gusto.
Oggi poi abbiamo anche modalità tecnologiche di ripresa con microfoni e situazioni di registrazioni che sono cambiate in modo esponenziale, quindi anche la qualità può essere migliorata: la registrazione della voce, di certi suoni, di certi strumenti. Non siamo stati “violenti” nel voler cambiare le cose, siamo stati molto filologici. I ragazzi hanno fatto un gran lavoro perché abbiamo mantenuto i brani molto fedeli nella struttura e nel mood a quelli che erano gli originali.
Questo album precede un evento molto importante: il “Van de Sforum” del 23 novembre. Ti andrebbe di raccontarci qualcosa sull’evento all’Unipol Forum?
Il Forum rimane sempre un appuntamento “possente”. Ne ho già fatti due nel corso degli anni. Era da tanto tempo che volevamo fare un altro forum, ma quando era tutto pronto abbiamo dovuto fare i conti con il COVID e alla fine gli anni sono volati.
Adesso finalmente ci siamo e vogliamo fare un concerto che deve essere riassuntivo: deve essere una grande festa, deve essere anche un almanacco di brani che la gente può conoscere molto bene, saltare, ballare e cantare. È un luogo dove tutto risulta molto esplosivo e anche tu che sei sul palco devi fare il conto con tutta questa gente, con uno spettacolo che deve essere in simbiosi con il pubblico stesso.
Chiameremo qualche amico sul palco, ma la mia idea di ospite non è andare a cercare i grandi nomi dello spettacolo. Non ci sarebbe niente di male a farlo, ma verranno sul palco degli amici musicisti che hanno condiviso con me in tanti anni diversi palchi, diverse avventure e viaggi. Mi piace l’idea di farli ricomparire a rotazione su un palco perché senza di loro sarebbe una festa un po’ a metà.
Ci stiamo impegnando anche per un per degli effetti luci e visivi molto interessanti per lo show. Lo spettacolo come puoi ben immaginare avrà una scaletta che somiglia molto al Van de Best, andrò proprio a prendere dei brani che tutti si aspettano.”
Il tuo lavoro musicale ha sempre mantenuto la costante dei testi in dialetto, ma ha esplorato generi e stili. Quanto ti ha aiutato nella tua carriera?
Il viaggio attraverso i generi è stata probabilmente la vera e propria pozione per poter continuare senza rimanere sopraffatto tuo stesso genere. Non ho mai pensato alla musica come a qualcosa che doveva chiudersi dentro ad un’etichetta. Quindi tutto quello che era nelle mie corde e tutto quello che era dentro la mia emozione, anche durante gli ascolti della musica d’oltreoceano o del Nord Europa, era per me stimolo. Io sono un ascoltatore totale, a 360°.
Non ho avuto problemi a sfiorare un po’ di blues, un po’ di rock, andare un po’ nella psichedelica. A tratti alcune canzoni come “Mad Max” vagamente progressive. Con il “Tour de nocc” abbiamo toccato anche una latitudine vagamente jazz grazie ai sassofoni e ai flauti di Riccardo Luppi. Con “Synfuniia” abbiamo addirittura fatto un salto ingombrante dentro alla musica chiamiamola classica.
Il tutto per misurarsi sempre, ma per divertirsi mentre stiamo facendo qualcosa. Altrimenti, se diventi il carceriere di te stesso, musicalmente qualcosa poi non “frizza” più e tu ti rendi conto che stai sbagliando strada. È molto importante mantenere il proprio stile nei testi, nel cantato e nel modo di affrontare le storie e i racconti, ma serve continuare a giocare anche con altri musicisti, con altri ospiti e con altre produzioni.
Mettersi di fronte a stimoli nuovi è la linfa e la benzina di cui ciascun cantautore o musicista ha bisogno. È ovvio che io non mi possa di punto in bianco far finta di essere un musicista rave o un musicista Trap o un musicista metal, ma tutti questi ascolti comunque esistono e qualche volta una strizzata d’occhio a destra o sinistra ci può essere. L’idea di credibilità e di libertà nella musica è stata il terreno che ho sempre voluto sotto i piedi per continuare il percorso. Altrimenti avrei cambiato strada già molto tempo fa.
Oggi festeggi i 25 anni di carriera: quali sono i ricordi più belli?
I ricordi sono tantissimi. Ovviamente ci sono stati luoghi che hanno fatto un po’ la differenza: luoghi per noi che potevano essere dei punti d’arrivo, ma anche dei punti di partenza come il Teatro Ariston a Sanremo, o le volte in cui sono andato al premio Tenco, dove ho ricevuto delle targhe e dei premi. Insomma, c’era sempre questo ritorno in Riviera insieme a grandi cantautori del presente e del passato. Quelli erano tutti momenti che per un ragazzo erano un’elettricità fuori di testa.
Poi c’è stato anche l’altro Sanremo, il Sanremo nazional popolare che ha portato sicuramente emozione e una soddisfazione dal punto di vista di pubblico e critica. Benché sia un luogo non semplice da vivere, noi ci siamo trovati molto bene.
Ci sono tutte le piazze, impossibili da dimenticare. Quelle piccole, nei paesi lontani da casa: Sardegna, Irpinia, Calabria, Puglia. Oppure la Notte della Taranta: 80.000 persone sotto il palco e una grande orchestra diretta da Ambrogio Sparagna con tanti musicisti di tutte le età.
Come fai a metterli tutti in fila questi ricordi? Sono sensazioni che ti fanno entrare nelle case delle persone, che ti ospitano per una settimana. È stato tutto quel mondo quasi un po’ zingaro, un po’ iperfolk che io ricordo essere stata la mia età dell’oro. Col passare del tempo non sei più così elastico e non hai più tutta quella voglia di rimanere fuori casa così tanti giorni, è naturale. Cambi non soltanto fisicamente, ma anche dal punto di vista del tuo approccio mentale con le cose. Non per questo smetti di emozionarti quando torni in certi luoghi.
Il catalogo delle grandi emozioni può essere stato sicuramente anche legato a luoghi grandi dove ho suonato, ma anche a luoghi estremamente ridotti, raccolti. Posti fantastici, magari in cima a montagne o dentro a dei quartieri medioevali semi abbandonati, dove la gente si stringeva per ascoltare qualcosa che magari veniva suonato anche in acustico. Ci sono tantissime sfumature in un percorso così lungo.
a cura di
Luca Nicolini
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