“Misericordia” – la recensione in anteprima del film
Il 16 di novembre arriva in sala “Misericordia”, l’ultimo film della regista Emma Dante (“Le sorelle Macaluso”), ora al Festival del Cinema di Roma.
La regista palermitana Emma Dante ha edificato negli anni – fra teatro, lirica e letteratura – un’opera imponente, popolata da donne sottomesse agli uomini. Per lei il teatro ed il cinema sono mezzi per esorcizzare la loro scomparsa e per denunciare le loro vite sacrificate.
Misericordia è un film che lascia l’amaro in bocca, una parabola che racconta l’ingiustizia, la povertà e il degrado in forma di prosa.
“Misericordia”
Emma Dante decide di raccontare tutto questo attraverso gli occhi di Arturo, un bambino intrappolato nel corpo di un adulto. Un uomo che rappresenta l’innocenza e l’ingenuità, mentre tutto ciò che lo circonda è il manifesto del decadimento. Noi spettatori ci sentiamo in apprensione per il povero Arturo come sarebbe una madre col figlio; impariamo a volergli bene, e vederlo in quel contesto ci destabilizza emotivamente.
L’immagine del pesce fuor d’acqua, della pecora nera, del diverso in una realtà omologata ad una società marcia che volta lo sguardo dall’altra parte, ci viene sbattuta in faccia in tutta la sua crudezza, attraverso inquadrature che ci costringono a concentrarci, a porre la nostra attenzione proprio su questi aspetti turpi. Torbidi, come l’acqua in cui i personaggi della pellicola immergono i loro piedi ogni giorno.
Il film comincia in medias res, con una ripresa che incornicia il paesaggio costiero di una piccola isola siciliana. La cinepresa entra nel particolare, insinuandosi nell’intimità violenta di un femminicidio. Le urla stridenti della donna violentata riecheggiano nell’insenatura della grotta che, di lì a poco, sarà il presepe che accoglierà una pecora ed il protagonista – allora neonato – di questa storia: Arturo.
I suoi piedi piroettano sullo stesso punto, al centro di una piazza in rovina completamente vuota. E, mentre gira su se stesso, cresce e diventa uomo.
Un uomo con la gioia di un bambino negli occhi.
Misericordia dipinge, dunque, la realtà di un contesto degradato, abitato da prostitute a servizio del patriarcato. Donne consumate dalla vita che annaspano nella sporcizia e nell’acqua melmosa delle tubature che le sommerge, impedendo loro (sebbene in maniera metaforica) di liberarsi dalla loro condizione.
L’estetica
La realtà – seppur mortificante, vista da un occhio esterno – è rappresentata con gran gusto per l’estetica.
La fotografia ritrae i personaggi in maniera statica, il cui unico accenno di movimento viene dal vento che scompiglia i capelli. Tutto sembra sospeso, come se ristagnasse in quella melma; come lo stendardo ieratico di un simbolo, di un’idea che manifesta un dissenso.
Arturo vive un’esistenza ancor più difficile per la malattia che lo relega ad una condizione di svantaggio rispetto a chi gli vuole del male, ma la sua bellezza sta negli attimi spensierati, negli abbracci, nelle risate, nel suo candore di bambino che lo estranea da quel mondo spietato.
Di boccate d’aria, nonostante tutto quel fango, ce ne sono tante: la bellezza di Anna, il cui corpo (a differenza delle altre prostitute) non viene mostrato come per preservare il suo splendore, è una di queste.
Un corpo che, in quel degrado, risulterebbe stridente.
Un altro simbolo importante che entra in contrasto con le brutture di quella realtà è il paesaggio. In particolare il mare – culla materna – che, dopo ogni avvenimento tragico, accoglie e protegge, proprio come fa la pancia della madre con il feto.
La sceneggiatura è asciutta, essenziale ma intensa, perché la bellezza del film risiede negli sguardi, nelle inquadrature familiari. D’altra parte, quando il campo si allarga per ritrarre le scogliere ed il mare, quasi percepiamo il peso della distanza, dell’indifferenza della politica ed il problema secolare della disuguaglianza. Sentiamo di averli abbandonati anche noi – che in quella realtà ci abbiamo vissuto, anche se comodamente seduti su una sedia di velluto!
E così il drone si allontana, e quello scorcio di vita dolorosa – che per certi versi conserva la nobiltà roussoniana della genuinità primitivistica – ci appare sempre più sfocato, in maniera irrimediabile.
Perché sì, il film ci mette in discussione e, quando ci allontaniamo da Arturo, proviamo come la sensazione di aver lasciato un nostro caro amico.
Conclusioni
Una volta usciti dalla sala la sensazione è quella di aver trovato sollievo dopo il disagio, ma le brutture che abbiamo visto nel film rimangono scolpite nella nostra mente.
La storia di Arturo ci mette faccia a faccia con la realtà, con i nostri sensi di colpa. Ci ricorda di tutte quelle volte che abbiamo mostrato disinteresse nei confronti di problemi altrui che, egoisticamente, non ci riguardavano.
Emma Dante riesce nel suo intento: destabilizza lo spettatore e lo trascina insieme ai protagonisti nel fango, facendogli sporcare le mani.
Chissà se questo basterà a farci interessare maggiormente a ciò che si trova al di fuori del nostro piccolo orticello, a tutti quei problemi del prossimo di cui ci disinteressiamo.
E a suscitare in noi l’interesse nel provare ad aiutare, quando nessun altro lo farebbe.
a cura di
Benedetta D’Agostino
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