Editors: “EBM” è il rimedio per annullare tutte le distanze
“Coraggio” non è la parola esatta ma è la prima che viene in mente
“Coraggio“, tre sillabe che racchiudono il tentativo degli Editors, lungo quasi un ventennio, di scrollarsi di dosso l’etichetta di copia spudorata di band quali Interpol, The Cure, The Smith e Joy Division.
Per la band di Stafford, la continua ricerca di differenziarsi, sgomitando nei meandri della new wave e del post punk, assume un punto di partenza irrinunciabile per la composizione del loro ottavo album in studio, “EBM”, pubblicato lo scorso 23 settembre.
“Un album emotivamente molto fisico”
È quanto dichiarato dal frontman Tom Smith, un disco che ben manifesta un perenne status di agitazione e convulsione, in grado di virare prepotentemente su sonorità dance ed industrial.
Da premiare la tendenza alla sperimentazione, conseguenza naturale scaturita dai recenti ingressi nella line up di Elliott William, Justin Lockey e, su tutti, Benjamin John Power – in arte Blanck Mass – già collaboratore esterno della band dal 2018.
EBM, acronimo di Electronic Body Music – ma anche Editors & Blanck Mass – si presenta come una raccolta di nove brani per fabbriche dismesse e difficilmente non troveranno consensi dal vivo.
Heart Attack, Karma Climb, Kiss e Vibe sono i quattro singoli apripista che lasciano facilmente contestualizzare l’intero lavoro. Un melting pot ben arrangiato che unisce le sonorità degli esordi a quelle attuali, spingendo l’acceleratore verso un habitat elettrowave, magnetico e fisico.
L’ascolto prosegue con un’eccessiva ispirazione ai Depeche Mode, un minimo comun denominatore che penalizza i migliori entusiasmi di questo ritorno ma, di certo, non annoia. Le liriche drama explicit si fondono con aderenza sulle contaminazioni goth e dark di brani come Strawberry Lemonade e Strange Intimacy.
Silence ed Educate, ermetiche e non troppo convincenti, risultano un passo indietro mentre Picturesque, seconda traccia del disco, è la vera essenza del disco e ci proietta inevitabilmente in una sconfinata dancehall.
Perdersi per conoscersi
Un disco leggermente complicato al primo ascolto, obiettivamente non annoverabile tra le produzioni migliori della band, ma che riesce a trasmettere un continuo mutamento senza mai snaturare la loro attitudine cupa ed introspettiva.
Privandoci di ogni pregiudizio, si avverte in pieno quanto l’esigenza espressiva del sestetto inglese esploda in un’urgenza collettiva. E qual è il modo migliore per avvicinarsi al prossimo se non quello di annullare ogni distanza fisica e mentale?
a cura di
Edoardo Siliquini