“This Much I Know to be True”: il nuovo docufilm di Andrew Dominik su Nick Cave

“This Much I Know to be True”: il nuovo docufilm di Andrew Dominik su Nick Cave
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Processo creativo, caos e l’eterna battaglia dell’individuo contro il dolore nel nuovo docufilm su Nick Cave

Il sodalizio artistico tra Nick Cave e Andrew Dominik, dopo One More Time with Feeling del 2016, ha dato l’ennesimo frutto: il docufilm This Much I Know to be True, presentato allo scorso Festival di Berlino e in sala per qualche giorno come evento speciale di Nexo Digital.

Se nel precedente documentario, Dominik aveva raccontato il momento forse più buio della vita di Cave, successivo alla morte del figlio Arthur, e la realizzazione del disco Skeleton Tree, in questo esplora l’accettazione. La consapevolezza di non avere nessun controllo sulle cose che succedono nella vita. Lo dice anche Nick Cave stesso: “la mia priorità non è più la felicità, è trovare il senso delle cose”.

Il tempo è circolare, la vita è circolare. Come dimostrano anche gli ultimi tragici accadimenti nella vita del cantautore australiano, con la morte dell’altro figlio Jethro. Tutto cambia, tutto torna, sempre uguale a se stesso. “Ogni condizione” continua, “anche la peggiore, ci offre un’opportunità di reazione“.

This Much I Know to be True cattura gli ultimi due anni nella vita di Cave, offrendo una riflessione sulle conseguenze generate da un grande dolore, sulla vita e sull’arte.

Le ceramiche

Quando pensi che Nick Cave abbia già detto tutto nella sua lunga carriera fatta di dischi, colonne sonore, film e libri, ecco che arriva la sorpresa. Ora fa il ceramista. Il documentario infatti inizia con una panoramica del suo atelier dove Cave, vestito con un camice bianco, mostra le statuette che ha realizzato in questi ultimi due anni lontano dal palcoscenico: santi bolliti nell’olio e una serie che racconta la vita del Diavolo, tra coniglietti e teschi. Bizzarro, forse. Ma utile a fornire il prologo per quello che verrà.

Spazio alla musica

Nick Cave ha elaborato il lutto e, nel frattempo, ha dato vita a due dischi maestosi: Ghosteen e Carnage. In questo documentario, meno emotivo e introspettivo rispetto a One More Time with Feeling, grande spazio è lasciato alla musica.

Una parte importante è data dalle performance, che si svolgono all’interno di alcuni spazi chiusi, una fabbrica abbandonata o un grande palazzo in rovina. Al centro della scena sempre Cave e il suo sodale Warren Ellis, con l’intervento di ospiti d’eccezione come Marianne Faithfull.

I brani eseguiti, tutti tratti da Ghosteen e Carnage, vengono ripresi da lunghe carrellate che creano un’orbita con Cave sempre al centro. Le esibizioni sono ipnotiche e trasportano lo spettatore in un altro mondo. Se Nick Cave è seducente, nel suo completo elegante e le movenze da predicatore, Warren Ellis sembra un direttore d’orchestra, caotico e geniale. Asimmetrici e complementari.

I Bad Seeds sono, almeno momentaneamente, scomparsi: inghiottiti dalla relazione musicale dei due.

Il rapporto con Warren Ellis

Come si è inserito (Warren) nei Bad Seeds, con Mick e Blixa?“, chiede Andrew Dominik a Nick Cave. “In un ruolo subordinato, abbellendo ciò che già c’era. Poi un po’ alla volta, lentamente, ha fatto fuori tutti gli altri. Il prossimo sarò io, ho notato che canta molto di più ultimamente“.

Uno degli aspetti più interessanti di This Much I Know to be True è proprio la collaborazione tra Cave e Ellis, già autori di numerose colonne sonore per film e insieme in tour, senza i Bad Seeds.

Ellis è fondamentale nella creazione dei pezzi e, come racconta Nick Cave, è “un agente del caos che è sempre in modalità trasmissione, piuttosto che ricezione“.

Uomo, padre e marito

Tra i momenti più significativi di questo documentario, che mostra soprattutto la vita musicale di Nick Cave, c’è quello in cui parla di essersi sempre definito in passato un musicista o un artista, mentre ora vede più se stesso come un padre o un marito. E forse è proprio questo il punto: Cave sembra aver trovato il conforto necessario, oltre che nella musica, anche nelle persone e nei rapporti umani.

Lo dimostrano i suoi The Red Hand Files, dove ascolta il dolore dei suoi fan e prova a offrire, se non una risposta, almeno un punto di vista, accompagnandoci ancora una volta nel momento in cui essere umani è un’impresa più difficile del solito.

a cura di
Daniela Fabbri

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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