I Greta Van Fleet. Sì, quella band di ragazzini che nel 2017 “sconvolse” il mondo dei rockettari in crisi d’astinenza con “Highway Tune“. Sì, quelli che hanno avuto la sfortuna di essere definiti anzitempo i nuovi Led Zeppelin. Quelli che nel 2018 hanno effettivamente pubblicato il primo album, “Anthem of the Peaceful Army”, che era un continuo rimando e scopiazzamento di Zep e affini. Insomma, i Greta “mannaggia a chi vi ha consigliato” Van Fleet.
Oggi, a due anni e mezzo di distanza, la band statunitense torna sulla scena con “The Battle at Garden’s Gate”. Compitino? Nuovo copia-incolla-e-lucida? Un passo per volta, prego.
“Dai Andrea, raccontaci di più”
Partiamo spudorati: “The Heat Above” e “Age of Machine”, causa heavy rotation radiofonica, hanno scartavetrato il corpo cavernoso del sottoscritto già prima che quest’album vedesse la luce. Peccato, perché dopo una purificazione repentina e necessaria delle orecchie, “Age of Machine” si rivela essere un gran pezzo, con quei riverberi e quelle urla da santone tibetano trapiantato nel Grand Canyon.
Per chi non conoscesse i The Vintage Caravan, sappiate che “Broken Bells” dei Greta Van Fleet ha un giro di chitarra spudoratamente simile (anche se più lento) a “Innerverse”. I due brani, poi, evolvono in maniere completamente diverse, ma è giusto ravvisare questa particolare coincidenza.

“The Battle at Garden’s Gate”, comunque, non è solo un torneo di “Trova la somiglianza”. Il nuovo disco della band statunitense prende le distanze dal pur fortunato (e criticato) predecessore in una caratteristica stilistica molto, molto importante: hanno tirato il freno a mano, rallentato e inserito due marce più basse. Prendiamo “The Barbarians”, “Tears of Rain” o “Stardust Chords”: non sparano a raffica note e bpm come forsennati, bensì rallentano il ritmo, dilatano il tempo. Lo dilatano talmente tanto che riverbero e tastieroni la fanno da padrone per gran parte del minutaggio.
Tutto è dosato affinché vengano dipinte con pur decise pennellate sonore atmosfere dai toni quasi epici. Tutto è dosato, tranne l’ugola di Joshua Kiszka, padrone incontrastato della scena e che più volte si lancia verso vette pazzesche.
Il declino dell’era moderna
“Si sono dunque modernizzati costoro?” Ma manco per il cazzo. Macché. E perché mai avrebbero dovuto, mi verrebbe da aggiungere. I Greta Van Fleet del 2021 suonano quelle reminescenze di rock anni ’70 esattamente come hanno fatto in passato.
La differenza, semmai, è che “The Battle at Garden’s Gate” punta moltissimo sull’epicità sonora, a partire dalla pomposità del titolo stesso. Il che non è né un male, né un bene: è una loro nuova caratteristica che, onor del vero, domano più che dignitosamente.
“Costoro, dunque, continuano a scopiazzare Lor Maestà Led Zeppelin?”
Ottima domanda.
La matrice è innegabile, le influenze palesi. Il timbro vocale, paradossalmente, non aiuta a fugare questi dubbi dal rockettaro intransigente e nostalgico e lamentoso.
Il passo in avanti è stato comunque compiuto. Il gruppo continua a portare in alto la bandiera del rock anni ’70 conosciuto attraverso eMule e Spotify, ma lo fa, ora, mettendoci del suo. Imparata la lezione, si cerca di far qualcosa di proprio. Si continua a copiare, ma non in maniera pedissequa (segnate, termine difficile del mese).
Rimani stupito, godi, ti emozioni quando arrivi alla traccia numero dodici, quella finale. Dopo un viaggio lungo un anno, eppure della durata poco più di un’ora. “The Weight of Dreams”, il brano più impegnativo, audace e ambizioso della loro giovane carriera, è la loro “Stairway To Heaven”, solo più pomposa e sguaiata. E questo mi fa godere e incazzare al tempo stesso. Eppure è innegabile come sia un pezzo fantastico.
In bilico tra godimento e nervosismo
I detrattori possono stare sereni: anche questa volta c’è materiale a sufficienza per spalare letame sui Greta Van Fleet. Ma con meno strafottenza, perché il cambio di stile gioca a favore dell’ensemble, assicurandogli quantomeno l’onore di aver provato una nuova un’altra via, pur rimanendo così sfacciatamente “New-Seventies”.
“The Battle at Garden’s Gate” è un disco ambizioso, è innegabile, che cresce poco e poco a poco col passare del tempo. Innegabile una tuttavia una sua dignità, a meno che non vogliate ripetere cocciutamente il refrain “Non ci saranno più gruppi come [inserire nome a caso e ultra sputtanato]”.
A questi ragazzi serve poco, davvero poco per trovare una propria vera, reale identità personale. Manca poco, il giusto guizzo perché facciano tesoro di quanto seminato e raccolto fino a oggi.
a cura di
Andrea Mariano