Icastico, nel nome e nelle canzoni

Vincenzo Fucito, in arte Icastico, è un eclettico cantante e chitarrista viterbese. Il suo percorso musicale comincia davvero molto presto, ascoltando di nascosto i dischi dei suoi genitori e iniziando a suonare la chitarra, tanto che incomincia ad esibirsi davanti al pubblico a soli 14 anni.
I suoi brani, spesso taglienti e diretti e con sonorità alternative hip-hop e rap rock, lo hanno portato ad aggiudicarsi alcuni premi nazionali, tra cui il Premio della critica a Sanremo Rock 2018.
Sempre nel 2018 ha aperto il concerto della The Original Blues Brothers Band al Blubar Festival.
Nel 2019 ha pubblicato il suo primo singolo, Cristo!, e lo scorso 6 maggio è uscito il secondo, Alcolico. In questo brano ci parla dell’ uso dell’alcol come pretesto per sentirsi a proprio agio con le altre persone quando non lo siamo con noi stessi, trascinandoci in quella sensazione con il ritmo della canzone.
Attualmente sta lavorando al suo primo album e noi abbiamo scambiato due parole con lui.
Partiamo dal termine icastico: “Che descrive, rappresenta o ritrae nei tratti essenziali, e quindi in modo efficace e spesso asciutto, tagliente”.
Chi è Icastico e quanto si riflette il tuo nome d’arte nei tuoi testi?
Il nome viene dal fatto che l’essere Icastico è ciò a cui tendo quando scrivo e quando vivo. Non mi piace perdermi in mille parole per descrivere un concetto. Probabilmente è un modo di stare al mondo che mi è stato trasmesso dal mio amore per gli aforismi e per autori come Oscar Wilde, Nietzche o Woody Allen.
È questo che mi piace di Icastico: mille concetti racchiusi in una sola frase. Ma senza essere ermetici o vaghi. Anzi, bisogna essere estremamente precisi. Icastico è prendere tutte le sfaccettature e la complessità di un’intera vita e sforzarsi di racchiuderle in una sola frase.
Nel tuo ultimo singolo, Alcolico, ci parli del bicchiere in più bevuto per sentirsi a proprio agio in mezzo alla gente. Credi che questa esigenza derivi più da un disagio interiore o da una società che sempre più spesso ci mette addosso pressioni e aspettative da parte degli altri?
Credo che sia una combinazione di entrambi i fattori. Devo premettere che in questo momento storico trovo inutile occuparsi “della società”. La crisi che stiamo vivendo non è sociale, ma individuale. Ed anche volendo c’è poco che possiamo fare per agire sulla società.
Ma possiamo aiutare le persone a sentirsi comprese, parte di qualcosa. Possiamo aiutarle ad accettarsi per come sono. L’alcol è un pretesto, in realtà, per parlare di tutte le dipendenze. Ognuno ha la sua stampella, il suo modo per sembrare qualcun altro. Che tu dipenda dall’alcol, dal sesso o da instagram non cambia nulla.
L’incontro vero con gli altri e, soprattutto, con noi stessi ci terrorizza per le famose aspettative e gli standard che giustamente citavi nella domanda. Dobbiamo essere felici, produttivi, furbi ed estroversi. E invece se ci guardiamo veramente allo specchio ci vediamo depressi, pigri ed insicuri. Schiavi del grande inganno della società del benessere: il concetto di “crescita personale”.
“Devi cercare sempre di migliorarti” implica necessariamente che così come sei ora non vai bene. E questa è la bugia più pericolosa che possano raccontarti.

Hai iniziato a esibirti live molto presto e da lì è diventata quasi un’esigenza. Cosa è per te suonare davanti a un pubblico?
È la possibilità di incontrare le persone come me e di fare da specchio. Credo che l’energia che spesso mi viene riconosciuta, soprattutto nei live, provenga proprio dall’empatia che provo nei confronti di tutti i presenti.
Sento di riuscire a raccogliere ed accumulare i mostri di tutti. Li faccio miei, li faccio esibire insieme a me. L’energia che si sprigiona da questo processo è incredibile. È un climax che cresce incessantemente fino alla catarsi del momento in cui realizziamo “Io sono così. Pensi che sia sbagliato? Non me ne frega un cazzo. Io sono così e sono qui con tante persone come me. E balliamo e brindiamo alla nostra imperfezione!”.
Dico realizziamo perché è un’esperienza collettiva. A fine concerto io sono stremato quanto il mio pubblico. Anche perché assieme a Simone Bravi (il mio batterista, a cui ho affidato la direzione artistica dei live) abbiamo strutturato lo show in modo che gli attimi in cui prendere fiato siano pochi e lunghi lo stretto necessario per continuare a ballare fino alla fine.
Ma se vieni ad un mio concerto lo sai in anticipo come andrà a finire.
Da bambino ascoltavi di nascosto i dischi dei tuoi genitori. Ci puoi dire quali sono questi dischi e quali sono le tue influenze musicali?
Il primo disco in assoluto a farmi implodere qualcosa nella testa è stato Americana degli Offspring. Lo ricordo bene perché è stato il punto di non ritorno. Fu come se mi fosse esplosa una bomba H nella scatola cranica. È una sensazione che ho provato ancora solo con Nevermind dei Nirvana e con Toxicity dei System of a Down. Poi in modo più tenue con i Linkin Park, Hendrix, Coltrane.
In generale però il mondo in cui mi trovo a mio agio è la Black Musick. Dal Blues alla Trap non ha importanza. È quello il mondo a cui appartengo.
Al momento stai lavorando sul tuo primo album. Ci puoi anticipare qualcosa?
Lo stiamo ultimando con Alessandro Presti (Dear Jack) e Sveno Fagotto (Mobsound). La cosa che mi piace di più è che ad ogni brano alziamo l’asticella.
Il risultato è praticamente una raccolta di singoli. Zero riempitivi. Zero giri di parole. Sarà diretto e pungente, come piace a me.
a cura di
Mirko Fava
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