“Animale/Umano”: intervista con Alessandro Pugno, Paola Sotgiu e Silvia Degrandi

“Animale/Umano”: intervista con Alessandro Pugno, Paola Sotgiu e Silvia Degrandi
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In occasione dell’uscita al cinema del film “Animale/Umano”, noi di The Soundcheck abbiamo avuto l’occasione di parlare con il regista Alessandro Pugno e con le attrici Paola Sotgiu e Silvia Degrandi. Qui a seguito trovate l’intervista!

Giovedì 11 luglio ha debuttato al cinema Animale/Umano, prima opera di finzione di Alessandro Pugno. In occasione della promozione del film, noi di The Soundcheck abbiamo avuto l’occasione di parlare con il regista in persona e con le attrici Paola Sotgiu e Silvia Degrandi.
Ecco cosa è emerso da questa intervista!

Piacere, sono Claudia Camarda di “The Soundcheck”. Intanto, grazie per il tempo dedicato a questa intervista e complimenti per l’uscita di “Animale/Umano”. Alessandro, cosa ti ha spinto a passare dai documentari ad un film di invenzione e quanto il tuo background da documentarista ha inciso nella realizzazione dell’opera?

Per me il documentario è stata una palestra e all’inizio non vedevo particolari differenze con la finzione. Sono cresciuto grazie alla Film Commission di Torino e al suo bando di finanziamento di documentari. Per noi che all’epoca avevamo vent’anni questa è stata un’occasione incredibile per cimentarsi nel cinema in modo più leggero rispetto alla scuola classica dei cortometraggi, così da poter anche imparare. 

Allo stesso tempo, mi ha sempre attratto anche la finzione. A quell’età, però, senza aver fatto scuole di cinema, era probabilmente ambizioso iniziare subito da lì. Il documentario mi ha comunque insegnato tanto, in primis una certa umiltà. Ero abituato a set in cui lavoravamo in cinque-sei persone ricoprendo tutti i ruoli, ragion per cui il passaggio al mondo del cinema con la sua gerarchia interna è stato un po’ intenso. Per carità, anche molto funzionale. Il settore cinematografico è uno di quelli che funziona meglio al mondo, proprio grazie alle sue regole. 

Il documentario mi ha conferito anche una certa apertura mentale e un cuore aperto al mondo, senza la paura di contraddirmi o cambiare opinione. Ho applicato questo tipo di approccio anche ad Animale/Umano. Non sono mai stato interessato alla tauromachia come attività, ma, nel momento in cui ho avuto questa idea, ho preferito parlare con degli aspiranti toreri per capire esattamente perché avessero scelto quella strada. 

Da dove viene la tua fascinazione con il mondo ispanofono?

La storia di Matteo – che dalla Pianura Padana giunge a Sevilla – è un po’ anche la mia. Io ci sono arrivato con l’Erasmus e sono rimasto affascinato da questo mondo e dai suoi colori: la Spagna era una specie di Italia possibile.

La mia opinione nel tempo (vivendoci anche per alcuni periodi) ovviamente si è evoluta. Rimane comunque che l’idea di questa dimensione quasi primitiva di lavoro a contatto con gli animali mi ha sempre affascinato. Anche nei miei documentari precedenti ho cercato costantemente questo rapporto diretto con il paesaggio.

Vedendo il film, la mia impressione è stata quella che sia per Matteo che per Fandango fosse necessario trovare un equilibrio tra una parte umana e una animale. Puoi raccontarci un po’ dei temi centrali del film secondo la tua visione?

Ci sono due aspetti centrali del film che a loro modo si mescolano. Uno è il rapporto con la morte, esplicitato da questi due personaggi che, come in una tragedia greca, sono destinati a scontrarsi in un duello mortale. Allo stesso tempo, l’uomo e l’animale sono connessi. Il film si costruisce come una serie di momenti che, a mio parere, tutti viviamo e che ci definiscono come individui, sia animali che umani (la separazione dalla madre, la competizione, l’amicizia, la solitudine,…). Contemporaneamente, si gioca con le definizioni di “umano” e “animale”, che fin dal principio vengono mescolate, arrivando solo alla fine a cancellare tutte le differenze attraverso lo sguardo finale tra i protagonisti. 

C’è anche un’idea di predestinazione tipica delle tragedie greche. Si potrebbe obiettare che, mentre l’animale è inconsapevole delle sue azioni, Matteo ha fatto delle scelte. Ecco, l’idea del film è interrogarsi su quanto queste scelte siano state libere, date le sue esperienze di vita precedenti.

Com’è stato lavorare con gli animali sul set?

Molto complesso visto che erano animali allo stato brado, ma la storia di Fandango era stata scritta. Avevo già lavorato con animali, ma si trattava comunque di una grande sfida. Il rischio di realizzare un safari o di non rendere Fandango un protagonista era piuttosto elevato, ma, fortunatamente, siamo riusciti nella nostra impresa. Questo è stato possibile grazie anche a due persone: l’attore che interpreta il mayoral Juan e un veterinario, Alberto. Per esempio, la scena in cui Fandango e sua madre si incontrano per la prima volta ha richiesto quattro giorni di riprese per catturare il momento preciso.

Complessivamente, per un primo film il periodo di riprese è stato piuttosto lungo, dato che ha richiesto undici settimane

E invece parlando del lato umano del cast? Il processo è stato semplice?

Devo ammettere di essere stato piuttosto fortunato. Il protagonista, Guillermo Bedward, è stato individuato con un casting di videotape. Ho capito subito che era lui quello giusto per il suo provino incredibile. 

Paola Sotgiu e Silvia Degrandi, che interpretano la nonna e la mamma di Matteo, sono state molto generose. Avevano dei ruoli piccoli, ma fondamentali. Silvia, per esempio, è riuscita a rendere in quattro scene un rapporto molto complesso tra una madre malata e il figlio. Paola addirittura ha avuto bisogno solo di due occhiate! 

Avevo poi tre attori alla prima esperienza: Ian Caffo (Matteo da bambino), Juan il mayoral e Donovan Cortez (l’amico di Matteo). Per un regista è molto interessante, in realtà, questa situazione, perché permette di costruire insieme il personaggio e di coltivare il talento degli attori. Ian Caffo si è rivelato essere un ragazzo taciturno, una qualità che ho cercato di inserire nel film. Il risultato è stato un Matteo bambino all’apparenza impassibile, ma dal cui sguardo si capisce che ha una grande vita interiore. 

Paola e Silvia, per voi invece com’è stato il processo che vi ha portate a lavorare ad “Animale/Umano”?

Paola Sotgiu: Alessandro Pugno mi ha contattata per interpretare questa nonna un po’ burbera dopo aver visto i miei lavori e io ho accettato con grande piacere. Posso affermare di non essermi sbagliata.

Nonostante sia stato costretto a tagliare diverse parti in italiano (che avrebbero rischiato di raccontare un’altra storia oltre a quella del film) Alessandro Pugno è stato molto sensibile e gentile nel comunicarmelo. Non lo fa mai nessuno, ma lui è una persona perbene e ci ha tenuto a farmelo sapere affinché non ci restassi male. Mi è capitato in passato di vedere dei film in cui, non dico che fossi scomparsa, ma quasi. 

Naturalmente, prima di accettare il lavoro, ho letto la sceneggiatura e mi ha convinta. Dopo sono partita per Torino, dove abbiamo girato una serie di scene. Oltretutto, Alessandro è un regista che sa esattamente quello che vuole, perciò lavorare con lui è semplice. 

Silvia Degrandi: In realtà è stato molto divertente, perché io e Alessandro siamo stati compagni di banco al liceo. Eravamo molto amici e un duo comico: facevamo gli scemi, gli altri ridevano e avevamo dei nomignoli che non posso ripetere! Finito il liceo, sono andata a vivere a Genova e lui a Torino. Siamo sempre rimasti in contatto, anche quando si è spostato a Madrid, mentre io sono entrata al Piccolo Teatro di Milano. Lui poi ha iniziato a fare documentari, mentre io ero alle mie prime esperienze come attrice. 

È stato quindi molto bello che per il suo primo film di finzione abbia deciso di chiamarmi. Ovviamente, essendo una coproduzione, ho comunque dovuto fare un provino per convincere i produttori. 

Silvia, avendo lavorato anche con nomi del calibro di Virzì e Sorrentino, come è stata la tua esperienza su questo set? A maggior ragione visto il tuo rapporto di amicizia con il regista Alessandro Pugno.

Non era scontato che io e Ale andassimo d’accordo. Anzi, quando hai un rapporto strutturato in un certo modo nella vita, è difficile cambiarlo sul set. E invece è andata bene! Lui è un regista che sa cosa vuole, ma è anche molto tranquillo. Come tutti i registi ha una sua idea di perfezione, ma è emotivamente abbastanza maturo da capire che la sua visione non può essere la stessa di tutti. Con me è andata così: mi ha presentato la sua visione, ma ha anche accettato la mia proposta.

Insomma, è stata veramente una collaborazione! E, in più, nel momento in cui abbiamo visto che sapevamo rispettare i nostri rispettivi ruoli, il nostro rapporto di amicizia è stato solo un aiuto. Per esempio, io so cosa intende quando parla di qualcosa e, viceversa, lui sa cosa posso apportare a livello di comunicazione non verbale in una scena. 

Paola, avendo preso parte anche ad un prodotto del calibro di “Suburra” (la prima serie italiana originale di Netflix) come direbbe che cambi lavorare ad una grande produzione rispetto ad una più indipendente?

Sono contesti completamente diversi. Il casting di Suburra venne fatto per sei mesi da Michele Placido. Io avevo fatto il provino, ma poi non era successo nulla, o almeno così credevo. Nel frattempo mi ero recata al mare quando, a fine agosto, mi chiamarono per un callback. Al secondo provino, appena ho visto Michele Placido, mi è venuto un colpo! Io in genere mi preparo molto bene, ma tra quello e capire un personaggio c’è una grossa differenza.

E così, dopo avermi vista recitare la scena, Michele si è alzato, è venuto vicino a me e mi ha spiegato chi fosse quella donna. Mi ha aperto un mondo, ma, d’altra parte, lui è veramente un grande professionista! Come si dice a Roma “non è mica pizza e fichi”. Ha poi girato due puntate con noi sul set e io l’ho ringraziato perché, senza quel suo intervento che mi ha fatto chiarezza sul personaggio, non lo avrei azzeccato così. 

Ho fatto anche una serie con Gabriele Muccino, A casa tutti bene. Anche lui sa bene quello che vuole e sa dirigerti con chiarezza. Ha una sensibilità abbastanza fuori dal comune. 

Devo dire che la stessa cosa può essere applicata anche ad Alessandro Pugno. Esattamente come gli altri due, sa quello che cerca. Lavorare con lui è stato molto interessante e per nulla difficile. Quando un regista sa quello che vuole, il resto diventa semplice. Tu puoi utilizzare il tuo saper recitare, il tuo cuore, per eseguire al meglio quello che serve.

Silvia, com’è stato lavorare con il giovane Ian Caffo, che interpreta il personaggio di Matteo da bambino?

Per lui si trattava di un ruolo veramente difficile, soprattutto considerando che doveva approcciarsi ad una donna sconosciuta cercando di averci l’intimità che si ha con una madre. Noi attori abbiamo questa capacità per cui riusciamo ad entrare in confidenza molto velocemente negli incontri. Io ho cercato di essere molto attenta nei suoi confronti per farlo avvicinare senza che si imbarazzasse. Sul set c’era comunque anche sua madre, che è stata molto dolce e ha avuto un ruolo importante come spesso hanno i genitori in queste situazioni. In più, Ale è riuscito ad instaurare con lui un rapporto meraviglioso. 

Prima delle riprese abbiamo avuto la possibilità di passare una giornata insieme. Siamo andati a mangiare un gelato e abbiamo cercato di conoscerci un po’. 

Paola e Silvia, voi avete lavorato anche a teatro. Dove vi trovate meglio? Su un palco o su un set?

Paola Sotgiu: Si tratta dello stesso lavoro, anche se – come sanno tutti – i soldi sono diversi. Anche l’impegno è diverso: a teatro devi preparare lo spettacolo, fare prove per mesi e conoscere bene il copione. Non puoi limitarti a conoscere solo le tue battute. Non lo potresti fare nemmeno al cinema – sia ben chiaro – però ogni tanto succede che qualche collega non sappia tutte le battute e quindi non lasci spazio per le tue. Mi è capitato in un’occasione – non dirò nemmeno sotto tortura con chi – ed è qualcosa che mi irrita profondamente. 

Allo stesso tempo, la tremarella che mi prende a teatro non ce l’ho su un set, ma, d’altra parte, la soddisfazione a teatro è immediata. Mi è accaduto, per esempio, di fare un trittico shakespeariano, dove interpretavo la nutrice di Giulietta. Avevamo due spettacoli al giorno e, quello della mattina, era per le scuole. Con i ragazzi in partenza c’è sempre un po’ di chiacchiericcio, però, quando ho iniziato il mio monologo, dopo un minuto ho sentito silenzio e mi è venuto un colpo. “Li ho presi!” ho pensato. Dopo il monologo c’è stata anche un’ovazione da parte dei ragazzi e quell’emozione la può dare solo il teatro

Silvia Degrandi:  Banalmente, mi piacciono entrambi. Sul set amo essere in contatto con tutti i mestieri del cinema, dagli attrezzisti agli scenografi e così via. A teatro, invece, la mia parte preferita è il periodo di prove, cioè avere la possibilità di preparare un progetto tutti insieme come squadra e di portare il pubblico nel nostro mondo. Al momento mi sento più a mio agio davanti alla camera da presa, perché a teatro continuo a sentirmi un po’ più insicura.

Una cosa che, però, per ora mi capita solo a teatro e che adoro è il poter interpretare ruoli comici! Ciò che invece – purtroppo – mi porta a lavorare meno lì è il fatto che in Italia si tratti di un lusso. 

Alessandro, Paola e Silvia, avete già dei progetti interessanti per il futuro?

Alessandro Pugno: Con Redibis e con la coproduzione messicana stiamo cercando di realizzare un film in Messico. Si tratta di una storia d’amore sulle spiagge locali nel santuario delle tartarughe marine. Al momento stiamo partecipando ad alcuni bandi e spero di avere la possibilità di girarlo in meno di dieci anni. Sto anche scrivendo alcuni progetti di serialità che spero di riuscire a piazzare, dato che mi interessa anche quel tipo di scrittura.

Paola Sotgiu: C’è un film che abbiamo girato l’anno scorso, una commedia molto delicata. Si chiama L’amor fuggente, e per ora non ha ancora trovato distribuzione. Il regista, Lomma, è anche lui giovanissimo, ma sa quello che vuole. Per il resto ho riceduto delle proposte, ma per ora di concreto non c’è nulla. 

Silvia Degrandi: Non so ancora quando uscirà, ma ci sarà una serie di Sergio Rubini su Giacomo Leopardi, in cui interpreto un personaggio realmente esistito. Un altro progetto è una serie tv con Battiston come protagonista. 

Avete dei consigli per giovani attori/registi che si approcciano al mestiere?

Alessandro Pugno: Innanzitutto, come diceva Tarkovskij, la cosa più importante per un artista è essere fedeli a sé stessi. Quando ci si approccia alla regia si va alla scoperta di un linguaggio, sperimentando ciò che piace. Si tratta di un’avventura in cui è importante assorbire il lavoro altrui, rendendolo proprio. Allo stesso tempo, è altrettanto importante saperlo lasciare andare senza identificarsi troppo

Paola Sotgiu: Nella mia esperienza la passione è fondamentale e mi ha portato a vivere anche dei momenti molto belli e particolari. C’è una collega che afferma di non essere un’attrice, ma di farlo di lavoro. Ecco, io invece penso di essere un’attrice. Sono un’artista. A volte ammetto di usare questo fatto come scusa per esser disordinata.

Silvia Degrandi: Penso che riuscire a crearsi una routine di vita sia fondamentale. Se si costruisce una propria solidità interna da usare come base di ritorno, ci si può poi perdere nei personaggi. Il punto è avere la possibilità di tornare a casa – e con questo termine intendo sé stessi e il proprio corpo. Quindi, secondo me, è bene tenere sempre il proprio corpo allenato, perché è da esso che impariamo più cose.

Insomma, facendo più un discorso di sopravvivenza a questo lavoro, penso che la prima cosa sia crearsi una propria stabilità e delle proprie strutture attraverso esso. Il punto è sapere resistere nel tempo, perché magari ci saranno anni in cui si raggiungerà l’apice in fretta, ma purtroppo bisogna anche essere pronti agli inevitabili periodi di bassa. In quei momenti rimaniamo da soli con le nostre reti di persone – che è meglio provengano da vari ambienti – e con la nostra solidità interna. 

Prima di lasciarvi andare, ho un’ultima domanda: perché andare a vedere “Animale/Umano”?

Alessandro Pugno: Se si vuole vedere una favola universale, mettendosi in gioco e ponendosi domande riflessive, questo è il film giusto. Lo stesso vale se si vuole sperimentare l’immaginario che sta alle spalle di un ragazzo orfano o se interessa provare a mettersi nei panni di un toro. 

Paola Sotgiu: Perché è un film estremamente interessante. È la storia di un ragazzo e di un toro che crescono in contemporanea e che sono destinati ad incontrarsi. Racconta anche di un padre che vuole imporre il suo volere ad un figlio, cosa che purtroppo succede ancora. È un film in cui sono presenti delle immagini meravigliose, come per esempio la scena della scuola di toreri, che mostra anche tanta natura e dalla quale si percepisce un’idea di cosa sia la Spagna.

Viene poi offerto un punto di vista su come interpretare la corrida, un elemento che qualcuno criticherà sicuramente. Si tratta, in realtà, di una storia antica fortemente sentita dagli spagnoli. Ovviamente sarebbe un discorso molto più lungo che probabilmente non ci compete, però penso che questo film lo affronti molto bene.

Silvia Degrandi: Prima di tutto perché a livello di immagini è molto evocativo. A differenza di molti film italiani, i dialoghi sono asciutti e la comunicazione è affidata anche al linguaggio non verbale: si rinuncia alla componente didascalica, a favore di un linguaggio più emotivo. 

La pellicola parla della ricerca di un proprio posto nel mondo, riflettendo in particolar modo su quanto questa sia una nostra scelta o la conseguenza degli avvenimenti della vita. 

a cura di
Claudia Camarda

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