Il Divin Codino: su Netflix la storia dell’uomo dietro il campione
Andrea Arcangeli ha raccontato che per assimilarla al meglio, per un periodo di tempo, si è addormentato con la voce di Roberto Baggio in sottofondo. Chi scrive dormiva con una figurina del Divin Codino sotto il cuscino. Da qualche settimana, su Netflix, è arrivato il biopic diretto da Letizia Lamartire su Roberto Baggio – Il Divin Codino, appunto.
Campione indiscusso dentro e fuori dal campo, mito assoluto e icona del calcio, Roberto Baggio ha indossato nella sua carriera diverse maglie, dal Vicenza alle grandi di Serie A. Fiorentina, Juventus, Milan, Inter e Bologna, per chiudere indossando i colori del Brescia.
Nel ricordo della gran parte degli italiani, però, il nome di Baggio è legato principalmente alla sua partecipazione a tre Mondiali: Italia 90, USA 94 e Francia 98. In particolare il Mondiale negli Stati Uniti, con quel rigore sbagliato nella finale contro il Brasile, ha segnato l’immaginario di più di una generazione.
Baggio sbaglia, tira alto e manda fuori, prendendosi tutto il peso della sconfitta della Nazionale allenata da Arrigo Sacchi. Chiunque all’epoca fosse grande abbastanza si ricorderà senza dubbio le lacrime di rabbia e delusione. E ricorderà altrettanto bene che quell’errore non ha smosso di una virgola il rispetto per il Baggio uomo e campione.
Operazione nostalgia
Nel film di Letizia Lamartire, ovviamente, molto spazio è riservato al Mondiale del ’94. Ci si arriva dopo un prologo che ci presenta la famiglia del Divin Codino – papà Florindo su tutti -, gli esordi col Vicenza, il grave infortunio al ginocchio e il debutto in Serie A.
Fin dal principio è chiaro come l’intenzione de Il Divin Codino sia quella di emozionare, toccando le corde della malinconia e del ricordo. Il film in questo senso gioca bene le sue carte, anche dal punto di vista tecnico, soprattutto per quanto riguarda le scelte di fotografia.
E nell’atto dedicato a USA 94 Il Divin Codino, in quest’ottica, dà il meglio di sé, in una riuscitissima “operazione nostalgia”. La fotografia fa un balzo all’indietro negli anni Novanta, restituendo in maniera filologicamente corretta e pregevole quelle immagini. La colonna sonora si fa personaggio e tocca il picco emozionale nel montaggio accompagnato dalle note di Supersonic degli Oasis.
La sfida – probabilmente persa in partenza per chi nel ’94 era già nell’età della ragione – è quella a non farsi venire il groppo alla gola. Lamartire imposta la narrazione su un registro familiare, con lo scopo preciso di umanizzare il Divin Codino. Dall’infortunio al crociato, al legame con il padre, passando per il Buddhismo e il rapporto con la moglie Andreina.
L’uomo dietro al campione
E come nella bella canzone di Diodato, composta appositamente per il film, la regista rivela l’uomo dietro al campione. Andrea Arcangeli è perfetto nella parte, sempre credibile e misurato, oltre che molto somigliante a Baggio nei tratti. Ottima anche la prova di Andrea Pennacchi nei panni di Florindo.
L’interazione tra Arcangeli e Pennacchi è uno dei punti di forza del film e la figura di Baggio figlio è quella messa in luce meglio. Altri aspetti funzionano meno, uno su tutti l’avvicinamento al Buddhismo, trattato un po’ di corsa e con una certa superficialità.
Il Divin Codino, per quanto emozionante e carico di nostalgia, non è un film esente da difetti. Primo fra tutti i tempi che si prende per approfondire alcuni aspetti della vita personale di Roberto Baggio; aspetti che, nell’ottica di un minutaggio di un’ora e mezza, inevitabilmente vengono sacrificati.
Se da un lato è un piacere ripercorrere le gesta del miglior calciatore italiano di sempre e riscoprirne il lato più intimo, dall’altro resta una sensazione di amaro in bocca, di parziale delusione. Probabilmente, la storia di Roberto Baggio (dell’uomo, del campione, dell’icona) avrebbe meritato altre attenzioni e magari una destinazione come prodotto seriale.
Il Divin Codino resta comunque un film ben fatto, onesto e misurato, garbato e affettuoso; il giusto omaggio a un pezzo di storia del calcio e, perché no, di Storia e basta.
a cura di
Anna Culotta