Lo stadio, metafora di vita

Lo stadio, metafora di vita
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Scrivere queste righe è un po’ come scrivere il dettato alle elementari appena si impara a usare la penna, a dettarlo però non è la maestra Patrizia ma è la negazione che onnipresente negli ultimi 12 mesi è stata compagna e padrona del tempo e delle azioni. La tutela necessaria, il sacrificio immacolato e la tolleranza spropositata che il cittadino pensante sta elargendo nei confronti dell’ “indispensabile” sono gesti che preservano il futuro collettivo ma che annientano, secondo dopo secondo, l’integrità giornaliera per come l’abbiamo sempre conosciuta.

Il paradosso e la polemica effimera si riducono alla provocazione sui social, che poi provocazione nemmeno è più, è un semplice abbaiare sordo dettato dalla noia e dalla mancanza di idee e iniziative, ed è un sintomo automatico quanto plausibile, anche se sta divenendo una squallida reinterpretazione del diritto al dissenso, nauseante.

NAUSEA

Cosi come essere indignati perché le chiese riversano di divina salute e nessun divieto di transito quando la categoria dello spettacolo si piega sulle ginocchia, manco stesse pregando sui ceci un Dio più comprensivo e magnanimo. Nauseante come l’adattamento obbligato alla solitudine e al dover far la rivoluzione invitando a casa quattro amici nascondendoli in giardino per un pranzo, mantenendo un occhio chirurgico all’orologio. Il gioco del coprifuoco è un countdown a forma di elastico che avvicina minuto dopo minuto alla nuova realtà di questo tempo, è la vittoria della paura travestita da moralità.

La nausea appunto, nel comperare settimanalmente a 3,99 € la partita della squadra del cuore quando per una vita intera è stata la voce a sostenere sul campo di battaglia i colori della città natia. Ricordavo in passato quando seguivo le partite a porte chiuse in TV causa squalifiche di razzismo o incidenti vari. Il clima era surreale e fastidioso, teatri sportivi lasciati orfani della componente cruciale del gioco stesso, un assordante stato catatonico, il più classico rumore dettato dal silenzio per usare un calzante ossimoro. Lo spreco dello spazio vuoto non utilizzato, lo scempio del nulla nella sua massima espressione. Un castigo appunto, una punizione.

Casi sporadici ai quali non si è abituati e una percezione di profondità, sia interiore che diametrale che anche tramite lo schermo era a portata di mano, un fastidio concreto, una cosa brutta davvero fatta bene. Quella repellenza si è persa dopo un anno di eventi sportivi asettici e questo preoccupa quanto l’accettazione alla rinuncia.

LA BELLEZZA DEL DUBBIO

Il ricordo romantico qui entra in gioco come un salvagente in balia delle onde, per non dimenticarsi da dove si è partiti e per non dimenticarsi sopratutto la strada per tornare. Gli aneddoti, gli stati sensoriali che riaffiorano e si spandono come il profumo del caffè della moka in prima mattina.

Le sveglie premature dopo notti brave, le docce gelide per riacquistare sembianze umane cantando o fischiettando le canzoni della curva, scegliere la maglietta, preparare la sciarpa, vestirsi d’inconfutabile orgoglio.

La curva, quella seconda casa dove sono state consumate ogni tipo di sensazioni. L’agitazione e l’eccitazione, la consapevolezza che una vittoria colorerà il weekend d’argento e sarà tutta un’altra storia. L’incognita del come e del perché era un tarlo che poteva sembrare anche fastidioso ma in realtà era il cuore pulsante di tutto, ed è proprio questo che ora ci manca di più oltre a presenziare attivamente: avere il dubbio. Dubbio sull’epilogo, di quante birre si sarebbero bevute, di quanti abbracci o bestemmie tra i denti sarebbero volate. L’uomo vive per queste impellenze, per questi punti interrogativi che non vede l’ora di sfatare. Conti alla mano, questo dubbio è stato relegato in sala d’aspetto.

Lo sport si alimenta di questo, si nutre dell’attesa, del battito del cuore accelerato nei minuti di recupero, del battito delle mani e soprattutto del canto col groppo in gola.

Stadio, tifosi
CANTO LIBERO

Canto spensierato e innamorato, una forma di concerto a sè stante, un’esibizione che non necessita né di tecnica né di obiettivi personali, non prevede ansie né scalette da rispettare. Il pubblico in ascolto in una clamorosa inversione dei ruoli diviene la squadra in campo ed ha la possibilità di emozionarsi in base al supporto che lo stadio riesce a dedicare. Spettatori e atleti che allo stesso tempo sbattono contro l’umore e la tensione del momento. L’entusiasmo esplode, la chimica prevale e le gambe sul prato verde possono girare a mille. Si innesca il prodigio quando l’urlo assordante e lo spettacolo in campo vanno a braccetto, ed è proprio per quello che la gente riempie i gradoni e gli spalti, per quello la gente ama rendersi parte di un’ unica voce, per creare qualcosa di unico ed irripetibile.

L’unisono, il frastuono, le mani che sbattendo danno dinamica come una marcia di guerra. La metafora della battaglia, dell’arena, della lotta per la gloria, in questo caso di un mantenimento dell’onore e dell’appartenenza verso la città intera come una responsabilità imprescindibile.

È colore, è goliardia, è passione, amicizia, è musica.

Stadio, colori
METAFORA DI VITA

La metafora di indole è la chiave di ogni cosa, certi concetti della vita li puoi scoprire e attuare ma non ci sono vie e scorciatoie per apprendere esempi che non passino dall’associazione con essa. Associare non è copiare, prendere spunto con libertà di forma e metodo non è accaparrarsi qualcosa in maniera clandestina.

Amiamo essere parte di una curva cantante perché metaforicamente la possiamo vedere come la nostra famiglia, perché il canto di 5000 voci possono sembrare il più bel concerto dal vivo mai esistito, perché il rettangolo verde può trasformarsi in un campo di battaglia e la vittoria degli undici combattenti può valere sempre metaforicamente la sopravvivenza, della categoria o dell’integrità morale verso noi stessi.

Gli stadi, i teatri e le sale concerti chiusi sono il cappio che annulla la fantasia; senza di essa muoiono la prospettiva e la ricerca, l’emozione e il senso di unità. Fa male la differenza di metro, con le chiese aperte, per pregare appunto una figura di fantasia che prende senso solo tramite la metafora.

a cura di
Vasco Bartowski Abbondanza

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