APICE: “Sono anni” è la sperimentazione del quotidiano

APICE: “Sono anni” è la sperimentazione del quotidiano
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Apice, spezzino di nascita, ma partenopeo nell’anima, inaugura il nuovo anno con “Sono anni”, singolo uscito venerdì 12 febbraio, sempre per l’etichetta La Clinica Dischi.


Ogni volta è la stessa storia per me: ascolto una nuova canzone di Apice, e me ne innamoro, la lego a me e (non chiedetemi perché) a un colore che mi evoca. Stavolta è toccato all’arancio, colore vivo, energico, come la forza che si ha ogni giorno di cambiare, o meglio di evolvere verso nuove frontiere personali, che, seppure sconosciute, fanno comunque parte di noi stessi.


È di questo che parla “Sono anni” …sono anni che provo a cambiarmi, ma poi…ma poi? Succede che si finisce per assomigliare a un volto che non è il nostro, per avere una voce che somiglia a quella di tanti altri, si finisce per non ritrovare più sé stessi.


Abbiamo dunque indagato insieme all’artista le varie accezioni che permettono di descrivere meglio il concetto di cambiamento che non è per forza sovversione, ma semplice crescita personale.

Ciao Apice! Il 12 febbraio segna la data per la pubblicazione del tuo ultimo singolo “Sono anni” in cui affermi di provare a cambiarti da sempre “ma poi ti fissi con gli stessi sbagli”: non credi però che sono stati proprio questi “errori” di percorso (volendoli chiamare così) che ti rendono l’artista che sei ora?

Che dire, cara Ilaria, hai già detto tutto tu! Hai già anche sottolineato che chiamarli “errori”, in un certo senso, può essere una forzatura interpretativa. Credo che quello che sono – e quello che davvero siamo – sia qualcosa di individuabile per negazione, per sottrazione dell’eccesso: insomma, al più ci si modella, ma non si crea dal niente qualcosa che non è.

Tutto ciò che possiamo fare, è provare a levare a colpi di scalpello la materia in eccesso, e tutto quello strato di assurde pose che in qualche modo la trasmissione culturale (con il bagaglio di significati e giudizi che questa include) ci impone addosso. L’aveva già capito Michelangelo, e prima di lui i grandi scultori dell’antichità: l’opera d’arte pre-esiste nel blocco, anche se prende forma dalla foggia dello scalpello e dalla libertà di chi lo usa.

Nel senso, credo che quello che sono oggi coincida più o meno con quello che già intuivo di poter essere quando avevo dieci anni; insomma, il blocco è lo stesso di allora. Solo che fino ad un certo punto pensi ad aggiungere, e aggiungere. Poi capisci che è il momento di togliere, e per farlo vai un po’ ad intuizione.

Gli errori, gli incidenti di percorso, gli sbagli dell’artista il più delle volte diventano delle firme. Ecco, io ho ormai autografato tutto il mio dilaniato blocco monolitico, e forse è per questo che lo sento estremamente mio.

Se potessi tornare indietro rimetteresti qualcosa da un’altra parte oppure lasceresti tutto com’è?

Assolutamente tutto com’è. Sono orgoglioso e gelosissimo delle mie cicatrici quanto dei miei scheletri. Ne ho una collezione particolarmente ricca, i miei armadi sono un tragicomico privé e il mio corpo un tempio del ricordo. Io faccio la spola tra i due estremi, e nel frattempo soffro d’asma.

La strofa “sono le cose che non sarò” ci fa capire che De Andrè è stata la tua voce guida in passato, quanto invece adesso sei tu il modello di te stesso?

De André, più che essere una guida, è stato il principio dello smarrimento. Che in un certo senso è esattamente quello che serve per scendere nel buio pesto della caverna. Poiché credo che Fabrizio non sarebbe troppo felice nel sapersi modello o guida di qualcuno, io – nel mio piccolo – cerco di onorarne la memoria tutelandomi dalla sua ingombrante e luminosa eredità. Però ti dirò, sono sempre stato molto onesto intellettualmente con me stesso, e ho sempre avuto grande rispetto della tradizione.

Per questo detesto il nostalgismo, inopportunamente retorico e utile solo a patinare superficialmente la mancanza di creatività di emulatori sempre più scaltri nello sguazzare nell’ignoranza storica dell’ascoltatore contemporaneo (ed è qui che il confine tra nostalgia e truffa diventa inquietantemente labile).

Quindi, per rispondere alla tua domanda, ho sempre cercato di fare in modo che modello non esistesse, perché controproducente alla creazione di qualcosa che, prima di tutto, dovrebbe essere mobile e allergico alla definizione di sé stesso. Non lo so, faccio fatica a concepirmi come modello, è troppo auto-referenziale anche per me.

D’altra parte, non credo di voler lasciare a nessuno (Faber incluso, e mi perdonerà – so che lo farà – questo pasoliniano slancio parricida) la possibilità di modellarmi. Allora diciamo che più che un modello, mi sento un cantiere aperto nelle mani della Storia. Ho tanti maestri, ma nessun modello; sicuramente, non me stesso. L’idea, oltre a spaventarmi, mi disgusta anche un po’.

Con il tuo ultimo album “Beltempo” ci hai fatto presagire che nella tua musica qualcosa di nuovo stava arrivando…quanto, ed eventualmente su che piano, stai sperimentando nelle tue future creazioni?

Ma guarda, ad essere onesti in “Beltempo” cercavo di convincermi che le cose sarebbero andate meglio soprattutto per me e per la mia anima provata, che allora non se la passava benissimo. Ebbene sì, nessun pensiero a terzi o alla mia musica, nessun intento programmatico: solo un disperato grido di aiuto e una mano tesa al mio dolore.

Che qualcuno si sia ritrovato nella mia operazione di catarsi è un mistero affascinante che ho deciso di non approfondire troppo, godendomi piuttosto la cosa come un delizioso imprevisto. Di certo, ho cominciato a farmi qualche domanda in più in merito a quanto potesse incidere, sul mio stesso processo creativo, la consapevolezza di avere un qualche destinatario per la prima volta.

Nella continua calibrazione del compromesso sta la cifra della mia personale ricerca artistica, ma credo sia un obbiettivo perseguito da chiunque provi oggi a fare “pop” in maniera consapevole e meno consumistica possibile. Quindi, posso dirti che più che sperimentare sto facendo quello che ho sempre fatto: cercare di non dirmi bugie troppo grosse.

Indubbiamente, l’operazione richiede un continuo aggiornamento dell’inventiva che, se vuoi, possiamo definire “sperimentale” per certe vie inaspettate che ti trovi a prendere sperimentandoti, prima ancora che sperimentando sulla tua musica.

Ti lascio con una domanda che mi pongo spesso e che dunque non posso che rigirare a te: (presupposto che sarei favorevole) hai mai pensato di pubblicare un intero album solo piano e voce?

Sì. Poi mi chiudo in bagno, e cerco di farmi passare la voglia. Masturbarsi è bello, ma solo quando si può andare oltre il livello cerebrale. E oggi, il diritto alla libertà e al riconoscimento della propria dignità d’esistenza, va conquistato anche attraverso la rinuncia. Forse sono stato troppo criptico. Anzi, credo proprio di essere stato fin troppo chiaro.

a cura di
Ilaria Rapa

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Ilaria Rapa

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