Hugo Race Fatalists: il caos che aiuta la creatività

Hugo Race Fatalists: il caos che aiuta la creatività
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Incontro Hugo Race per la prima volta mentre, in camicia e abito scuro, fuma una sigaretta nel cucinotto dello studio di registrazione a Lido di Dante dove, insieme a Francesco Giampaoli, Giovanni Ferrario e Diego Sapignoli, sta registrando i primi take per i nuovi pezzi.
“Non sappiamo ancora come usciranno” mi dice Francesco, “se faranno parte del nuovo disco oppure no”. Lo studio è il suo, “qui abbiamo registrato tutti i primi take con i Fatalists”.

Per arrivare ci si deve inoltrare nella campagna ravennate, una pianura a perdita d’occhio che arriva fino al mare. Quella di Lido di Dante è una spiaggia quasi pasoliniana in questa stagione.

Hugo è australiano, ma ha vissuto nel nostro paese per anni e parla italiano perfettamente. Lui e gli altri Fatalists hanno una lunga militanza nelle file della musica rock alternativa internazionale. Mi accorgo, quando parlo di musica, di utilizzare spesso parole come “militanza” o altre che fanno riferimento alla lotta. Forse perché il sentimento che sempre più spesso riscontro in musicisti di lunga data, come loro, è di resistenza. Mantenersi intatti senza per questo ripetersi è una battaglia vera e propria.

Hugo Race

Hugo Race ha collaborato a diversi album di Nick Cave, prima con i Birthday Party e poi con i Bad Seeds, con Mick Harvey, La Crus e tanti altri. Così Giovanni Ferrario, che ha lavorato con PJ Harvey, John Parish, Morgan, Scisma o Le Luci della Centrale Elettrica, solo per citarne alcuni. E poi ci sono, ovviamente, Diego Sapignoli e Francesco Giampaoli dei Sacri Cuori. Tutti musicisti che non hanno certo bisogno di troppe presentazioni.

Per la nostra intervista ci spostiamo in sala di registrazione tra le chitarre, tantissime, la batteria e i microfoni.


Hugo Race Fatalists è un nome pieno di significato. Vi sentite fatalisti? Consideri la vostra musica legata al fato?

Hugo: Dieci anni fa eravamo un gruppo senza nome, stavamo registrando il nostro primo disco e le canzoni erano abbastanza serie, con questa attitudine un po’ fatalistica.

Quindi quel “fatalist” è legato all’atmosfera che si respirava nel vostro primo disco?

Hugo: Sì, penso di sì. È un nome che ha un lato filosofico, non è come chiamarsi “i Gelati”. Fatalists, i fatalisti, porta qualcosa che ha a che fare con la filosofia dentro la stanza, dentro la comunicazione con il pubblico. Personalmente le parole che scrivo hanno questa tendenza di parlare della vita, della morte, del fatto che l’unica cosa che renda la vita umana significante è l’amore che abbiamo per gli altri. Il modo in cui incontriamo altre persone nel corso della nostra vita non credo sia una coincidenza. Se noi siamo in quattro in questo gruppo non è per caso. Non è necessariamente predestinato, ma abbiamo evidentemente qualcosa, tra noi, da fare insieme. Questa è la mia concezione del “fatalismo”.

Come nei precedenti, anche in quest’ultimo album ci sono suoni scuri, uniti all’elettronica. Come siete arrivati a queste sonorità?

Hugo: Il mio approccio, il mio metodo di fare musica, è mixare suoni “real”, ovvero analogici, a suoni elettronici. I Fatalists sono un gruppo acustico, principalmente. Ci sono tocchi di elettronica, ma il suono che facciamo è proprio la combinazione di noi quattro. Ad esempio Diego ha una sua caratteristica. Il suo suono è molto specifico, lo riconosco quando lo sento. È Diego. Diego come si spiega?

Diego: È un’interazione tra acustico ed elettronico, un’unione. Però, come diceva Hugo, parte da un suo modo di lavorare che probabilmente c’era anche prima dei Fatalists.

Hugo: Personalmente ho lavorato con i samples per tanto tempo, dagli anni Ottanta in poi. Quando è arrivata la tecnologia sono stato subito molto interessato, poi avevo amici fonici e musicisti che mi hanno spiegato come funziona tutto questo. Ed è partito così.

Diego Sapignoli
Riguardo ai vostri ascolti: c’è qualcosa che considerate interessante nella musica oggi? O qualcosa che ha in qualche modo influenzato quello che siete?

Giovanni: Ascoltare nuove cose oggi è il modo che abbiamo per mettere in gioco ciò che abbiamo dentro. Tutti abbiamo lavorato in passato, quindi è un modo per far rimbalzare qualcosa nel nostro background musicale. Ovviamente qualsiasi cosa tu ascolti, dalla trap alla musica classica, può darti ispirazione se sei un musicista.

Hugo: Come musicisti siamo molto aperti a tante cose: musica storica del Novecento, rhythm and blues, jazz, show songs, come per esempio Brodway. Sto parlando di tante cose prima del rock’n’roll perché nel rock’n’roll ovviamente siamo cresciuti con i più grandi, come Dylan, Hendrix. È chiaro, abbiamo questo in fondo. Ma in trent’anni di vita musicale abbiamo visto tante cose o tanti gruppi interessanti, come per esempio gli Swans, un gruppo di New York, che ha questa metodologia di sviluppare qualcosa di molto semplice, per 25 minuti, a un volume estremo. È una cosa interessante. Loro non sono un’influenza, però mi vengono in mente perché la prima volta che li ho visti era il 1985 ed è stato il concerto più violento e aggressivo a cui abbia mai assistito. Ha avuto un grande impatto.

Giovanni: Per quanto mi riguarda i Naked City, con John Zorn e Fred Frith hanno aperto una strada che per me è stata illuminante.

Hugo: Ho visto Pan Sonic nel ’98, al Link di Bologna. Fantastic! Era incredibile.

Giovanni: Anche io ho visto Pan Sonic, al Tunnel a Milano.

Hugo: Poi negli anni Ottanta ho fatto un tour in Australia come supporter per Nico. Nico era lì con il suo gruppo, avevano un tour manager bestiale perché lei era fuori dal mondo. È stato molto interessante. In quello stesso periodo ho visto anche John Cooper Clarke, il poeta di Manchester. Sono tante cose, anche molto diverse, ma tutte hanno prodotto un effetto su di noi.

Giovanni Ferrario
Hugo, i tuoi album assomigliano a dei film, al loro interno c’è una specie di narrazione, storie che vengono raccontate all’interno dei testi. Come nasce l’ispirazione della scrittura? Quando inizi a scrivere una canzone hai in mente un’immagine o magari parti da un sentimento?

Hugo: In Taken By the Dream c’è un ospite con la chitarra, Chris Brokaw, un chitarrista americano con cui ho lavorato anni fa (già Lemonheads, Come, Codeine, ndr). Ha fatto dieci take sulla canzone. Il primo take era molto, molto astratto. Mi è piaciuto tantissimo, ma non entrava bene nel pezzo, ho levato la sua guitar mettendo una parte elettronica, ma ancora non capivo come far entrare la voce. Poi ero a Berlino e dovevo scrivere un paio di canzoni con un compositore tedesco, Daniel, gli ho fatto sentire questo pezzo e lui ha cantato una linea melodica, senza parole.

L’ho registrato con l’iPhone e poi un po’ di tempo dopo ho iniziato a scrivere dei testi. Non era facile. La mia ragazza mi ha mandato un’email dove ha scritto delle cose molto interessanti, che ho rubato e messo nel testo del pezzo. È un mash up di cose. Questo è solo un esempio, ma spesso le canzoni nascono così. Ce ne sono alcune che sono molto semplici, con tre accordi, come per esempio Gonna Get High che è un blues con solo un accordo. Era quindi abbastanza facile da scrivere, però era difficile da rendere bene perché i contenuti musicali sono molto scarsi. Quindi abbiamo fatto un gran lavoro per sviluppare qualcosa attorno alla base che avevo.

Non c’è sempre lo stesso processo creativo che porta alla scrittura.

Hugo: Mai. Io non provo a scrivere una canzone, arriva. Oppure ci sono incidenti interessanti nello studio e allora viene fuori qualcosa. “Ah, ok, questo potrebbe essere interessante”, poi si gioca un po’.

Questo è un discorso che vale soprattutto in relazione ai suoni. Per i testi invece?

Hugo: Per i testi è difficile ricordare anche la genesi. Per Phenomenon, ad esempio, il primo pezzo di Taken By the Dream, avevo già una parte della musica. C’era un senso di nostalgia, mi faceva ricordare qualcosa di Phil Specktor, mi ha fatto pensare a qualcosa che riguardava la mia prima moglie. Per cui ho scritto le parole come un ricordo: avevamo attorno ai 17 anni e dovevo andare a prenderla a casa del suo papà, un italiano a Melbourne che non parlava inglese. Non era facile! Ho ricordato questa cosa, come se fosse un’immagine e poi sono venute fuori le parole.

Esistono secondo te dei luoghi che possono sviluppare la creatività? Quali sono stati quelli di quest’ultimo disco?

Giovanni: La Romagna!

Hugo: L’Italia, in generale. Ad esempio in Australia anche facendo viaggi molto lunghi il paesaggio non cambia molto. Come parla la gente, la cultura, è tutto molto simile. Qui in Italia invece quando si cambia regione, cambia tutto. La luce della Toscana, il vento della Sicilia, il paesaggio della Campania, la desolazione della Calabria, la paranoia della Lombardia. Per me, che sono straniero, è sempre interessante ascoltare la gente, le cose che dice, vedere quello che fa.

La creatività è aiutata dagli spostamenti. Non devi essere a tuo agio. Io trovo molto difficile scrivere qualcosa quando sono a casa, dove mi sento bene e tutto è ordinato, tutto è a posto. Ho bisogno di un po’ di “trauma”, di difficoltà. Serve l’elemento di caos. Scrivo poco a casa. Molto più in giro, con il mio telefonino. Ai vecchi tempi appuntavo sui giornali, ma ora non più.

Hugo Race Fatalists
Siete in tour in questo momento, quali saranno le vostre prossime tappe?

Hugo: In realtà abbiamo quasi finito con la strada, per il momento, è stato un tour lungo in cui abbiamo toccato Italia, Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Germania, Svizzera. Qualcosa come cinquanta concerti, da Maggio ad oggi. Adesso siamo qui per pianificare il nostro prossimo disco.

Che cosa ci si può aspettare da un concerto di Hugo Race Fatalists? Chi viene a vedervi cosa può trovare?

Francesco: Il contatto con Dio! (ridono tutti, ndr)

Giovanni: Sarebbe meglio che non si aspettasse niente e che venisse a sentirci, che fosse curioso di sentire la storia delle persone che stanno suonando. Oggi è facile sapere come suona un gruppo. Basta andare su Youtube. Dare troppe informazioni forse è svilente in questo periodo storico. Meglio stimolare la curiosità e stare a vedere cosa succede.

Hugo: Alla fine del concerto di Francoforte è venuta da me una ragazza, sorridente con le lacrime agli occhi e mi ha detto: “ho pianto tanto durante il concerto, era bellissimo”. In Polonia c’era un fotografo molto bravo che ha immortalato i visi delle persone nel pubblico, ci sono delle espressioni pazzesche: persone in trance, con gli occhi chiusi, bellissime. Quindi ti posso dire che il nostro impatto sul pubblico mi è sembrato molto emozionante.

Francesco Giampaoli
Quindi quel contatto con Dio potrebbe esserci veramente!

Hugo: Con Dio, o con se stessi. I Fatalists aiutano la gente a toccare le emozioni. Nei nostri concerti c’è euforia, malinconia, un po’ di violenza, ci sono i sogni e poi i momenti sospesi. È questo quello che facciamo noi. È questo il nostro approccio alla musica.

a cura di
Daniela Fabbri

foto di
Sara Alice Ceccarelli

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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