Pixies – PalaDozza di Bologna – 11 Ottobre 2019

Pixies – PalaDozza di Bologna – 11 Ottobre 2019
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Flashback, 2000. Ho circa 15 anni, sono chiusa in camera mia, cuffie nelle orecchie e un lettore cd che sembra un’astronave. La musica è a un volume illegale, mentre ballo e canto come un’isterica Debaser seguendo la voce, altrettanto isterica, di Black Francis: “I am un chien, anda-luuu-sia!”. Mia madre entra e mi chiede se è tutto a posto.

Fast Forward, 11 Ottobre 2019. Non sono più nella mia cameretta ma al PalaDozza di Bologna per la prima delle due tappe italiane del tour dei Pixies, una delle band più influenti della musica rock. E non lo dico io, ma i fatti: i Pixies hanno ispirato artisti del calibro di Nirvana, Smashing Pumpkins e Radiohead, solo per citarne alcuni.
Quando salgono sul palco del Paladozza, soldout già da diverse settimane, il palazzetto esplode. Black Francis, camicia e pantalone nero, non ha mai avuto l’aspetto della rock star e la storia non è di certo cambiata con il passare degli anni. Oggi è un signore sulla cinquantina, calvo, sovrappeso e con una faccia non troppo simpatica. Eppure, non riesco a pensare a niente che sia più punk di quella sua voce nevrotica e tagliente. Accanto a lui una splendida Paz Lenchantin con il basso decorato da una rosa rossa, Joey Santiago alla chitarra e David Lovering alla batteria.

Il concerto parte senza troppe chiacchiere con Cecilia Ann, St. Nazaire, dal loro ultimo album Beneath the Eyrie, per poi arrivare velocemente a Gouge Away. Moltissimi a questo punto tirano fuori in fretta i loro telefoni, altri sbattono la testa.

Black Francis e soci non sono un gruppo particolarmente loquace e anche questa sera lasciano spazio esclusivamente alla musica. In due ore e passa non dicono una parola, ma è vero che i Pixies sono una band diventata leggendaria più per le canzoni che per la personalità, quindi c’è una certa coerenza. Questo ovviamente non impedisce a Black di prenderci a schiaffi per due ore con una scaletta pensata in modo da non allontanarsi mai troppo da Doolittle o Surfer Rosa, pur riuscendo a piazzare al suo interno anche brani dell’ultimo disco.
Gli ultimi pezzi, appunto, affrontano un problema spinoso nella carriera dei Pixies, ovvero: come dovrebbe suonare la loro versione matura? Dopo diversi tentativi, piuttosto fallimentari a dire la verità, con questo Beneath the Eyrie sembrano finalmente aver fatto centro. Quindi la risposta potrebbe essere: più folk, quasi western, ma allo stesso tempo scura e strana, come ci si aspetta dalla band di Boston.
I pezzi più vecchi, che ormai hanno già passato la trentina, non suonano affatto datati e i Pixies li portano sul palco ancora con entusiasmante vitalità: Monkey Gone To Heaven, Hey, Here Comes Your Man e la gente inizia a saltare sotto al palco. Lo stile insolito dei Pixies è rimasto invariato negli anni e il pubblico è la sua cartina di tornasole: che il pezzo sia nuovo o vecchio, ogni canzone è accolta con un brivido.
Wave of Mutilation toglie la vernice dai muri, mentre Nimrod’s Son, per quanto mi riguarda, è IL punk. E sentire il pubblico che canta “you are the son of a mother fucker” è proprio una bella emozione.

Con Where Is My Mind il palazzetto ulula insieme a Black, ma è Crackity Jones il pezzo che, forse più di altri, incarna il suono dei Pixies, frastagliato e sgraziato. Quando arriva Tame, la voce di Black Francis grida e urla.
Dal vivo, i Pixies mostrano ciò che a volte hanno faticato a dimostrare in studio: ovvero che sono, nel 2019, una band ancora estremamente vitale.

Nella ricchissima scaletta c’è posto anche per qualche cover, come Head On di The Jesus and Mary Chain, un pezzo potente anche nella loro versione, sebbene l’originale sia più memorabile.

Il concerto si conclude così come ho iniziato questo racconto, con la differenza che questa volta Debaser non la canto nella mia cameretta con le cuffie nelle orecchie, ma in un palazzetto. L’entusiasmo però, garantisco, è rimasto identico. Il mio come quello di tutto il pubblico. Le scimmie continuano ad andare in Paradiso.

A cura di:
Daniela Fabbri

Foto copertina di:
Carlo Vergani

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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