Negrita, “Canzoni Per Anni Spietati”: come restare liberi in un mondo che ci vuole addomesticati

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Dopo sette anni dall’album “Desert Yacht Club”, tornano i Negrita con “Canzoni Per Anni Spietati”, un concept album che si presenta come un atto di liberazione e resistenza poetica

Nel vasto panorama del rock italiano, i Negrita sono una di quelle band che, per una buona fetta di pubblico, rappresentano un’istituzione.

Con “Canzoni Per Anni Spietati”, non solo si confrontano con la propria evoluzione sonora, ma si lanciano in una riflessione più ampia, quasi esistenziale, su un Paese in costante bilico tra il passato che si sgretola e un futuro che appare sempre più sfuggente.

Un disco senza retorica

In un’epoca in cui l’immagine prevarica la sostanza, la band toscana sceglie l’essenzialità. Niente fronzoli, solo parole in copertina – come a sottolineare l’urgenza del messaggio: “guardaci in faccia, ma con le orecchie”. Una scelta semplice, quasi ascetica, che non grida nostalgia ma qualcosa di più sottile: la volontà di non diventare spettatori delle proprie macerie.

Come se fossero stati investiti da un fulmine, Pau (voce), Drigo (chitarra solista e cori) e Mac (chitarra ritmica e cori) si ritrovano ad affrontare il tema della morte, dell’incertezza e di una giovinezza che sembra ormai naufragata, senza mai dimenticare la voglia di scrivere canzoni che restino in bocca come un buon whisky: forti, amare e in grado di lasciare il segno.

“Canzoni Per Anni Spietati” suona come un taccuino sgualcito, pieno di appunti presi con penne differenti ma sputati con lo stesso inchiostro, il diario di chi ha camminato scalzo a lungo e ha deciso di raccontarlo solo con le dita sporche di polvere e le tasche piene di parole vere.

Canzoni per chi ha smesso di rincorrersi

Il disco si apre con Nel Blu (Lettera Ai Padroni della Terra), un manifesto di resistenza poetica che travalica i confini della musica. Ispirato a Masters of War di Bob Dylan, il brano denuncia le manipolazioni globali e offre un’analisi lucida sulla società moderna

Ma che Dio vi maledica e vi metta in una bara
per potervi seppellire con i fiori e la fanfara
e noi saremo lì presenti, sorridenti a controllare
che davvero siate morti e non possiate ritornare

Noi Siamo Gli Altri è il cuore pulsante del disco: una dichiarazione di appartenenza a chi non si riconosce più neanche nemmeno nel proprio riflesso. Una canzone che parla di margini, senza piangersi addosso, proprio come chi ha perso il posto nel mondo, ma ha trovato un punto d’appoggio nella resistenza ostinata all’addomesticamento.

La traccia Song To Dylan rende omaggio al maestro della protesta musicale. Un inno alla parola che graffia e alla musica che smuove: i Negrita raccolgono l’eredità di Dylan e la rilanciano, chiedendoci di non stare a guardare mentre il mondo brucia.

Si arriva poi a Non Esistono Innocenti Amico Mio, un brano che invita ad affrontare le verità scomode senza illusioni

La mia paura e sto tremando
è che ci stiamo abituando
e che tra questa indifferenza ci sia anch’io

Mentre la reinterpretazione di Viva l’Italia di Francesco De Gregori aggiunge una prospettiva contemporanea al classico, dimostrando la capacità della band di dialogare con il passato senza esserne prigionieri.

Nel mezzo spunta Buona Fortuna, demo del ’99 riaffiorata oltre vent’anni dopo, vestita di una nuova pelle più leggera e il passo lento di chi ha attraversato gli anni senza perdersi tra le macerie. Una canzone come certe vecchie foto: sorridi, ma non ricordi più perché.

Dov’è Che Abbiamo Sbagliato è il sospetto che ci portiamo dietro da anni, puntandoci il dito addosso ogni volta che la barba comincia a imbiancare. Il brano ha il coraggio raro di ammettere che non siamo stati capaci di passare il testimone, che qualcosa si è perso tra “mille aperitivi” e nell’amarezza di vedere l’arte ridotta a intrattenimento.

Il congedo è affidato a Drigo: voce bassa, parole pesate e quel modo tutto suo di chiudere un disco come si chiude una porta lasciando la luce accesa. Non Si Può Fermare nasce a ridosso del lockdown, ma non cerca riparo: resta lì, dritta in mezzo al caos.

Perché sì, si è ancora vivi, si va avanti e un’altra estate arriva – nonostante tutto. La speranza, qui, non è una bandiera da sventolare: è una t-shirt stropicciata che continuiamo a indossare anche se ha perso il colore.

Cicatrici che bruciano ancora

Non è un album per chi cerca la replica degli anni d’oro, ma per chi vuole capire cosa succede a una band quando smette di rincorrere sé stessa e comincia a raccontare ciò che ha visto restando ferma.

Un lavoro che si inserisce nel percorso coerente – e mai accomodante – della band di Arezzo, da sempre fedeli alla propria traiettoria, pur sapendo che il suono che li ha consacrati non basta più.

C’è groove, ma sottopelle. Ci sono ritornelli, ma vanno stanati. Le chitarre non mordono più, ma scavano, come a voler dimostrare che anche il disincanto, se ben suonato, può diventare un’arma affilata.

Dentro ci trovi il blues delle partenze definitive, il folk delle grandi speranze e quell’eco mediterranea che suona come se De André avesse preso una birra con Tom Waits in una piazza d’estate. Non è un urlo, ma una risata appena percettibile che si perde tra le pieghe di un tempo che non torna.

I Negrita non offrono pacche sulle spalle, pongono domande. E chi li ascolta, oggi, finisce per trovarsi tra le crepe di quelle canzoni.

È un disco dedicato a chi non si è mai messo in fila, ma non ha mai neanche provato a saltarla. Un album che arriva con la voce roca di chi ha urlato troppo, ma ancora riesce a sussurrare le cose giuste.

O almeno quelle che bruciano.

A cura di
Edoardo Siliquini

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