“The Bad Fire”: il suono della resistenza dei Mogwai

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Tornano i Mogwai con il loro undicesimo album in studio, The Bad Fire

L’ultima evoluzione dei Mogwai segna l’inizio di una fase più introspettiva e dolorosa, suggerita dal titolo del disco, che richiama una locuzione della working class scozzese per indicare “l’inferno”.

Dopo una carriera trentennale, che li ha portati al primo posto nella UK Album Chart con As The Love Continues, i Mogwai hanno attraversato un periodo di difficoltà personali: la grave malattia della figlia di Barry Burns e la perdita di persone care, insieme a un evento doloroso che ha coinvolto il cane di Stuart Braithwaite, hanno segnato profondamente il quartetto di Glasgow.

Queste esperienze, anziché distruggerli, si sono trasformate in un elemento catalizzatore che ha trovato espressione nel loro suono: The Bad Fire diventa, quindi, una sorta di rifugio sonoro, una reazione musicale al “fuoco interno” che brucia e purifica.

Registrato sotto la sapiente guida di John Congleton (già produttore di Sigur Rós, Explosions In The Sky e St. Vincent), The Bad Fire è un album che abbraccia un suono più compatto e ruvido. Pur mantenendo l’approccio maestoso e cinematografico che li ha sempre contraddistinti, il disco si avventura in nuove direzioni, mescolando elementi di shoegaze, post-rock ed elettronica.

Le tracce spaziano da momenti di estrema delicatezza a esplosioni sonore potenti, creando una tensione emotiva che percorre l’intero album.

Intimità e sperimentazione

Il brano di apertura, God Gets You Back, è una potente dichiarazione di intenti. Un inno sintetico che guida l’ascoltatore in un vortice di arpeggi e beat pulsanti, rappresentando perfettamente il tema centrale dell’album: la musica come salvezza e resistenza.

In Fanzine Made Of Flesh, la band esplora un synth-pop alienante e ipnotico, con atmosfere che ricordano le sonorità psichedeliche di band come Grandaddy, mantenendo al contempo la tipica grandiosità che li ha resi icone mondiali del post-rock.

La traccia 18 Volcanoes si tuffa nello shoegaze più puro, con una melodia eterea che sembra provenire da un altro mondo, un paesaggio sonoro che richiama alla mente i My Bloody Valentine e le loro visioni oniriche.

Pale Vegan Hip Pain aggiunge un tocco di malinconia struggente, con una tensione che cresce lentamente, fino a sfociare in un momento catartico che lascia il segno.

A differenza di molti altri lavori post-rock, The Bad Fire non ha paura di sperimentare con generi e influenze diverse. Tracce come Hammer Room mescolano il krautrock con suggestioni jazz, dimostrando ancora una volta quanto la band sia capace di reinventarsi senza mai tradire l’essenza primordiale.

L’album gioca con ritmiche serrate in pezzi come Hi Chaos e Lion Rumpus, per poi passare a momenti di straordinaria atmosfera come If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others, ennesima manifestazione della loro maestria nel costruire paesaggi sonori avvolgenti.

Il messaggio della band

The Bad Fire non è solo un album di suoni, ma un viaggio emotivo che affronta il dolore con forza e senza retorica. È il disco più introspettivo dei Mogwai, forse il più necessario. Un’opera che non solo racconta il dolore, ma lo trasforma in un’esperienza intensa e catartica.

In un momento in cui Stuart Braithwaite, Dominic Aitchison, Martin Bulloch e Barry Burns sembrano più che mai lontani dai sentieri tracciati dalla tradizione, The Bad Fire si erge come una testimonianza di come la musica possa essere non solo un riflesso, ma anche una forza che aiuta a superare i momenti più oscuri.

Per la band, questo album rappresenta una riflessione sulla propria vita e un atto di resistenza a ciò che la vita stessa può portare. Per i fan, è una musica che offre un rifugio, una luce nel buio, un modo per affrontare le proprie difficoltà.

Perché, a volte, il fuoco che brucia dentro può anche illuminare il cammino.

Spesso i fan ci dicono che la nostra musica li ha aiutati a superare momenti difficili della loro vita. Per una volta, crediamo che questo valga anche per noi.

a cura di
Edoardo Siliquini

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