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Grand Tour, il nuovo film di Miguel Gomez premiato per la miglior regia al Festival di Cannes, approderà nelle sale domani 5 dicembre.

Il viaggio di Edward, interpretato da Gonҫalo Waddington, un funzionario dell’impero britannico che percorrerà le bellezze dell’Estremo Oriente, dalla giungla vietnamita alle sale karaoke filippine per poi passare dal Giappone e infine approdare alla caotica Shangai. L’onirico tour, come l’Ulisse di Joyce, ripercorre un’interiorità tormentata, evasiva, che fugge dalle catene del matrimonio.

Molly, la sua fidanzata, interpretata da Crista Alfaiate, lo insegue in questo viaggio rappresentato dalla comicità e drammaticità sottile dei film di Buster Keaton. L’amore impossibile è poi alleggerito dall’interesse documentaristico di Miguel Gomez nei confronti delle tradizioni di questi paesi che mantengono quell’allure poetica preservata dal bianco e nero.

I ricordi vengono raccolti dal regista sia, appunto, in bianco e nero che a colori e ciò ricrea quell’ossimorica collezione di ricordi “albumistici”, il cui termine appena inventato racchiude molto di più.

Un “album-mistico” tra Dalì e Sans Soleil

“Album-mistico”, secondo la mia visione, esprime il significato di una raccolta eterogenea di ricordi legati insieme dal misticismo, dato dall’atteggiamento spirituale del protagonista che si ferma a guardare le meraviglie naturali di Dio e le disegna.

Sembra, infatti, un racconto ambientato nel passato, che, legittimando anche l’uso di alcune tecniche del cinema muto, come l'”Iris”, conferisce al film, pensato probabilmente per rappresentare la bellezza di mondi lontani, la nostalgia di chi riguarda i ricordi dopo un bellissimo viaggio. I riferimenti al cinema di Bunuel e Dalì sono quasi espliciti, ripensando alla suggestiva scena del treno che si allontana dalla giungla vietnamita che è il selvaggio, da sempre rappresentato da questi autori in chiave allegorica.

La dimensione sospesa sembra, inoltre, provenire dalle suggestioni di Sans Soleil di Chris Marker, una metafisica unidimensionale, in cui sembra contare solo lo spazio come misura della coscienza. Una coscienza “Ulissistica”, in cui l’animo umano, quasi alienato, brancola confuso tra le suggestioni che trova nel suo cammino.

Ricordiamo anche che l’Oriente rappresentato, con una fotografia documentaristica, è quello del post-colonialismo. Un mondo nemesi, manuale, che desta pregiudizi negli sguardi occidentali. Quel selvaggio su cui gli occidentali avrebbero costruito un parcheggio di modernità, un’autenticità a cui non siamo più abituati.

a cura di
Benedetta D’agostino

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