“The Zone of Interest” – l’orrore dell’Olocausto da dietro le quinte

“The Zone of Interest” – l’orrore dell’Olocausto da dietro le quinte
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The Zone of Interest è l’ultimo lungometraggio scritto e diretto da Jonathan Glazer, vincitore del Grand Prix al Festival di Cannes 2023. E’ nelle sale italiane dal 22 Febbraio, distribuito da I WONDER.

Per discutere in modo appropriato di The Zone of Interest, è necessario fare un breve excursus sul distributore italiano dell’opera.

I WONDER è diventata in una decina di anni un pilastro nell’offerta di contenuti sul grande schermo, distinguendosi per la sua audace scelta di promuovere ciò che è più eccentrico e al di fuori degli schemi convenzionali. La sua rapida crescita evidenzia il successo di questa sua scelta controcorrente. Tra i titoli distribuiti dalla casa bolognese vi sono il singolare Dio esiste e vive a Bruxelles (2015), l’amorevolmente grottesco Titane (2021) e il premiatissimo Everything Everywhere All at Once (2022).

Ora, 80 anni dopo la soppressione dell’ultima anima tra le fiamme di Auschwitz, I WONDER decide di dare un forte schiaffo al suo pubblico portando The Zone of Interest nelle sale italiane. E usare il termine “schiaffo” è sicuramente riduttivo rispetto alla potenza dell’ultima opera di Jonathan Glazer.

Per l’autore britannico è usuale lasciare interdetti (basti vedere Under the Skin), ma quest’opera è su un altro piano rispetto alle altre: come può un lungometraggio, in cui le vittime del più grande genocidio della storia moderna hanno uno screen-time pari a quello di un contenuto sui social media, essere così destabilizzante?

L’agghiacciante vista dal giardino di casa Hoess
Trama

Il film ci immerge nella vita quotidiana della famiglia Hoess, composta da Rudolf (Christian Friedel), il primo comandante di Auschwitz, sua moglie Hedwig (Sandra Hüller) e i loro figli.

Attraverso uno sguardo intimo sulle loro routine e dinamiche familiari, capiamo di trovarci a pochi metri dal campo di concentramento più famigerato del mondo, mentre la narrazione ci conduce attraverso le loro semplici e triviali attività quotidiane. Tutto ciò è condito da incontri e scenette con altri personaggi di passagio, ad un muro di distanza dall’inferno.

Un’improvvisa imposizione dall’alto, però, mette in discussione il tranquillo equilibrio della famiglia nel suo paese dei balocchi, rischiando di cambiare l’idillio creatosi.

Il paradiso in terra degli Hoess

In apertura siamo introdotti alla figura di Hedwig Hoess, dispotica moglie del primo comandante, che astutamente si appropria dell’indumento migliore “ottenuto” dal rastrellamento dei beni delle vittime internate. Questo atto di furbizia infantile è tutto meno che casuale: presto comprendiamo come l’intera famiglia sia immersa in una sorta di infantilismo sconcertante, simbolo del loro totale distacco dalla realtà.

Non è un caso che l’unico personaggio al di fuori di questo contesto, la stessa madre di Hedwig, chiamata per qualche giorno a occuparsi dei figli, fuggirà di nascosto agli orrori che avvengono dietro il muro nel loro giardino.

Gli Hoess sono ancorati al loro paradiso, da cui separarsi risulta impossibile e impensabile, tanto da arrivare a fare capricci pur di rimanere.

Christian Friedel nei panni di Rudolf Hoess
“Il Grande Fratello vi guarda!”

In 105 minuti di proiezione, non c’è spazio per dettagli o primi piani. Glazer inquadra la famiglia Hoess da lontano, scrutandola, cercando di comprendere la loro totale mancanza di empatia, quasi come se fosse alla direzione di un documentario o, meglio ancora, di un reality show.

Ci troviamo di fronte ad una famiglia tedesca, e alle persone che le orbitano attorno, ignari di ciò che accade a pochi metri da loro. Le urla e le grida di dolore sono diventate una consuetudine, non sorprendono più, se non per coloro che l’abitudine non l’hanno interiorizzata (riprendendo quanto scritto nel paragrafo precedente).

Contrariamente a quella degli Hoess, la nostra visione è chiara, sia per cosa accade all’interno che all’esterno della magione, grazie alla scelta tecnica di Glazer di filmare con numerose telecamere contemporaneamente al fine di creare un effetto Grande Fratello. Anche gli attori stessi si sentono in soggezione, data la pressoché totale assenza della troupe durante le riprese, in unica compagnia perpetua di occhi inquisitori.

Questa differenza sostanziale destabilizza: se da una parte troviamo l’ignavia della famiglia, così vicina ma così distante dall’orrore perpetrato, dall’altra ci siamo noi, il pubblico del 2024 (e oltre), che nonostante il passare dei decenni e la distanza geografica, da una sala cinematografica, vediamo tutto in maniera nitida. Forse fin troppo.

Dietro le quinte della gioventù hitleriana

L’enfasi sulla mancanza di empatia non fa riferimento unicamente agli adulti della famiglia. I bambini, infatti, non sono risparmiati dal turbine della malvagità.

Oggi, la formazione scolastica contemporanea affronta diversi aspetti del regime nazista, tra cui le figure di spicco, gli orrori dei campi di concentramento e la guerra. Tuttavia, raramente approfondisce sul destino dei bambini e come questi finiscano per diventare complici, nell’occhio del ciclone dell’oblio.

Glazer, al contrario, lo esplora magnificamente.

Un esempio è l’inquietante scena nella camera di uno dei giovani figli di Hoess, dove assistiamo ad una sessione di giochi del bambino. Ciò, di per sé, non sarebbe sorprendente, data la sua tenera età, se non fosse per il modo disturbante in cui avviene: il piccolo impartisce ordini e si comporta come un spietato gerarca, imitando le voci provenienti da oltre il muro, nei confronti dei suoi giocattoli.

È dunque chiaro che il seme del male, piantato nella mente di quegli esseri umani, germogli fin da subito.

Uno dei figli di Hoess che gioca in camera
(Pro)memoria del passato

Ciò che eleva ulteriormente The Zone of Interest è l’audacia nel montaggio, sia dal punto di vista visivo che sonoro.

Da un lato, troviamo cut-to-black improvvisi e dissolvenze al bianco o al rosso che contrastano fortemente con gli eventi in corso; dall’altro, ascoltiamo sinfonie tenebrose da film horror che irrompono senza un’apparente ragione.

Cosa accomuna queste due scelte? Entrambe mirano a scuotere lo spettatore, per non farlo perdere nell’illusione della famiglia serena e felice che vede sullo schermo. Il fine è quello di ricordargli ciò che sta realmente accadendo.

In sintesi, lo stesso obiettivo che si prefigge il 27 Gennaio di ogni anno: la memoria.

La bambina polacca

Altro punto nevralgico dell’opera è la rottura della linearità delle scene: lungo tutta la pellicola esse sono statiche, dai movimenti minimi e con colori spenti (non vi è utilizzo di luci artificiali sul set); alcune però differiscono, grazie all’impiego dell’infrarosso.

Mentre i figli di Hoess ascoltano una favola raccontata dal padre, una bambina polacca segretamente nasconde cibo per i lavoratori del campo. Ad ogni scena in cui questa compare è applicato un filtro con la radiazione sopra citata, come se fosse analizzata, sotto torchio, rendendola visivamente “insolita”, strana, diversa dal resto.

La bambina agisce con coraggio, rischiando la propria vita, offrendo un punto di vista radicalmente differente rispetto a quanto mostrato nel resto della pellicola. Questa differenza è quindi accentuata grazie a questo elemento, così distintivo, che va a stridere con le riprese naturali e non artificiose sugli aguzzini tedeschi.

La scelta della favola è anch’essa significativa, Hansel e Gretel. Sebbene i Grimm intendessero narrare del percorso di crescita dei due fratelli, che li porta a conquistare l’autonomia, Glazer la inserisce perché perfetta per mettere in rilievo l’antitesi di fondo: qui la favola accompagna il coraggioso compito di una bambina già matura per la sua età, che deve affrontare adulti ancora mentalmente infantili, distaccati dalla dura realtà che li circonda.

La bambina polacca in un frame del film
Dunque perché è così importante oggi?

Oltre ad un forte parallelismo con la situazione geopolitica attuale, il film ci porta per la prima volta nell’ottica degli spietati gerarchi nazisti. Le vittime, invece, sono invisibili: vediamo il male costruirsi dinanzi a noi, con una tranquillità spiazzante.

Nella scena topica dell’opera, lo stesso Rudolf Hoess ha un rigetto, come se il suo corpo e la sua mente non siano allineati in quello che sta vivendo e pianificando per il futuro. Dopotutto, un essere umano non è predisposto ad odiare in maniera così feroce un altro suo simile. Ma ciò è avvenuto, e tuttora avviene.

Siamo infine lanciati nel presente, osservando alcuni lavoratori pulire l’ex-campo polacco, ora adibito a museo. L’obiettivo del riadattamento della struttura è chiaramente la memoria e il ricordo di cos’è successo, come avviene in location simili in tutta Europa.

Il quesito perciò è lecito: ciò sta funzionando? Stiamo andando dalla parte giusta? Qualcosa è cambiato davvero? Non è chiaro, la traiettoria degli ultimi anni non sembra affatto avvalorare le premesse.

È dunque meglio rifugiarsi in un codardo “Ai posteri l’ardua sentenza“.

a cura di
Francesco Pasquinelli

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