Carlo Giuliani, il martire della pseudo-democrazia italiana
La mattina del 20 luglio 2001 avviene l’omicidio che ha segnato e tormentato le menti di tutte le persone che tengono alla propria libertà, al diritto di protestare e manifestare le proprie idee, di chi ha avuto la conferma definitiva di non potersi fidare di un Paese che vuole il suo popolo uniforme e silente, e delle rispettive forze dell’ordine.
La repressione delle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001 è stata definita la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ha raggiunto l’apice della sua crudeltà con la morte di un ragazzo di ventitré anni. Carlo Giuliani non è la vittima di un semplice incidente, ma è il simbolo della fine delle lotte popolari di ampia portata in Italia. Con la tragedia di piazza Alimonda e la fine della carneficina di Genova, si spegne anche la voglia di intere generazioni di combattere fianco a fianco per degli ideali.
Gli schiaffi, i manganelli, il sangue e gli insabbiamenti giudiziari hanno spinto alla rassegnazione quel migliaio di ragazzi che armati di pietre e sorrisi sono arrivati a Genova da tutta Europa. Qualche “povera zecca” pubblica un post sui social in onore del compagno morto, spunta qualche striscione, ma il fatto che gran parte dei componenti della rinomata generazione Z non conosca gli episodi del luglio 2001 rimarca l’assenza di mezzi di comunicazione adeguati e neutrali.
I fatti in breve
In quella tragica mattina di scontri tra polizia e manifestanti, un’auto dei Carabinieri guidata da Filippo Cavataio, un giovane di leva, finisce contro un muro. Un gruppo di manifestanti si avvicina al mezzo, tra loro c’è Carlo con il famoso estintore per cui viene considerato da molti il carnefice anziché la vittima. Mario Placanica, dal finestrino posteriore, spara due colpi di pistola. Giuliani viene colpito fatalmente alla testa e il suo corpo viene attraversato due volte dal forte e rassicurante mezzo dell’Arma che si dilegua dalla piazza. In un primo momento, un funzionario di polizia attribuisce la morte di Carlo Giuliani ad un sasso lanciato dai dimostranti che avrebbe deviato la direzione del proiettile.
Successivamente, l’accusa di omicidio volontario ricade su Mario Placanica e Filippo Cavataio. La sentenza del 5 maggio 2003, tramite il GIP Elena Daloiso, proscioglie i carabinieri legittimando l’utilizzo delle armi. Il 13 marzo 2007 la Corte Europea dei diritti dell’uomo accoglie il ricorso avanzato dalla famiglia di Carlo. I suoi genitori puntano il dito contro l’uso eccessivo della forza da parte dei carabinieri e la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Nel 2009, i giudici di Strasburgo riconfermano le tesi della sentenza del 2003 ribadendo la legittima difesa dei due agenti. L’unica novità riguarda il riconoscimento degli obblighi di risarcimento economico da parte dello Stato italiano nei confronti dei familiari della vittima. Dopo il ricorso del 2010 fatto dai familiari e dallo Stato, il 24 marzo 2011, una nuova ennesima sentenza solleva il bel Paese dalle accuse.
La generazione del sonno
Come Carlo, siamo senza via di fuga. Intrappolata tra una censura e un hashtag, la nostra voglia di cambiare il mondo sta aspettando che un proiettile la uccida definitivamente. Il fatto che i grandi media e l’opinione pubblica non si preoccupino di commemorare la morte di Giuliani dimostra quanto lo Stato non voglia ammettere il proprio fallimento e i suoi problemi sistemici. Si continua a parlare di mele marce, ci si continua a lamentare delle vetrine rotte dai manifestanti senza rendersi conto della condizione comatosa della cultura e controcultura popolare. La rassegnazione e l’infermità del popolo italiano sferreranno ogni anno che passa un nuovo colpo alla memoria di un martire della pseudo-democrazia. Carlo vive, noi meno.
a cura di
Lucia Tamburello
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