“Songs of a Lost World”è la certezza in un mondo perduto. La recensione dell’ultimo album dei Cure
I Cure hanno realizzato Songs of a Lost World, il quattordicesimo album dopo un’attesa lunga 16 anni. Un lavoro che conferma la loro grandezza, statuaria come l’elemento che campeggia in copertina. Con un suono regale, stanco e deliziosamente lento, affrontano la mortalità e il dubbio come solo loro sanno fare.
I Cure sono un elemento distorto di questi tempi. Hanno tempi lunghi decisamente contrari all’attitudine di un mondo dominato dai social dove stragi di civili a Gaza e alluvioni devastanti vengono archiviate da un scroll sul telefonino. Dove l’ascolto e la riflessione fanno parte di un’attitudine da “boomer”. Ma i Cure non si sono mai atteggiati da santoni o guru di religioni salvifiche, tutt’altro. Più che altro sono stati coerenti con messaggi sulla caducità della vita e sui sentimenti di afflizione che ne derivano. E in Songs of a Lost World quel messaggio non si sposta di una virgola ma diventa monolitico anche nel sound.
I Cure, ve lo confesso, sono stati una delle band che ha attraversato buona parte della mia vita. Uno dei primi concerti è stata la data del Disintegration Tour a Bari, Stadio della Vittoria esattamente il 2 giugno 1989. Ero un mezzo darkettone all’epoca. Adoravo quell’attitudine dark, quel sentimento di disperazione in un mondo che lasciava poche speranze di redenzione. All’epoca vivevo nel Salento, ero coi miei che faticavano già allora ad arrivare a fine mese. Avevo appena finito le superiori e i pochi lavoretti che riuscivo a trovare portavano pochi soldi e zero certezze.
Ma era estate, mi sono ritrovato in macchina coi miei amici, il biglietto stretto fra le mani, Mimino Scarpedda che rullava le canne da Dio. Avevamo vent’anni e avevo appena mollato una ragazza più grande di me mentre eravamo in un bar a Campo Marino. Mentre lei mi parlava di responsabilità e matrimoni io mi sono alzato, sono andato al juke box. Ho messo la moneta ed è partito “Why can’t I Be You”, il successo pop dei Cure all’epoca. E vi assicuro che, oltre ai sentimenti dark condivisi in quello stadio, con Robert Smith che cantava di amori oscuri ma autentici, c’era tanta spensieratezza quando partiva “Friday I’m in Love”.
Sto divagando, lo so. Il mio era un modo per farvi capire quando le canzoni di Robert Smith abbiano valore ancora oggi perch édescrivono sentimenti comuni. L’amore è l’anelito a cui tutti aspiriamo nella nostra vita e le canzoni ne sono un riflesso. Ma le canzoni dei Cure hanno scomodato i bassifondi degli stati d’animo. La grande lezione intrapresa da formazioni leggendarie ( no, non sono gli 883, mi dispiace per voi) come i Joy Division o Echo & the Bunnymen con le loro “lune killer” è diventata introspezione nei Cure. Come dicevo sono stato un fan della prima ora, ma dischi come “Faith” sono stati pesanti anche per me, peggio della sensazione depressiva che mi trasmette il disco “Blackstar” di Bowie.
Eppure ci sono dischi come ” Pornography” dove quel dolore e quella depressione si accompagna a un senso di ribellione interna. Un grido animale che scuote il silenzio della notte. E più avanti negli anni i Cure hanno saputo anche essere giocosi. Ci hanno fatto addirittura divertire con canzoni come “The Caterpillar”, “Let’s Go to Bed”, “The Lovecats”. E poi quel disco “Disintegration” dove si condensavano i cure rabbiosi e disperati ma anche quelli spensierati, un disco completo.
Subito dopo “Wish” che conteneva ancora delle gemme preziose, li ho abbandonati. Da “Wild Mood Swings” a “4:13 Dream” non ho più trovato quel conforto, quella condivisione nella fragilità di stati d’animo. E arriviamo al 2019, trent’anni dopo, cambio di location: Firenze. Ancora il tour di “Disintegration” ma con la celebrazioni di trent’anni passati insieme, fra gioie e dolori e quelle note dolenti che ti percorrono l’anima fino a lasciarla esanime. Ora torniamo a noi. Songs of a Lost World non cambia una virgola di tutto il loro sound. O perlomeno è un’operazione della serie: “dove eravamo rimasti?”. Ma una cosa devo dirla ed è la stessa sensazione che ho avuto ascoltandoli live nel 2019: il loro sound negli anni è diventato monolitico, unico e inimitabile. Nero come la pece, profondo come centinaia di metri sotto il mare con quelle creature che sembrano di altri mondi.
E non c’è speranza che tenga ne tantomeno illusioni. Nelle canzoni di Songs of the Lost World i Cure non nascondono nulla. In un mondo perduto c’è però ancora il tempo di un abbraccio, forse di un’ultima parola che possiamo dire prima che sia troppo tardi. Un lento incedere che è come un’orchestra di trenta elementi con le tastiere di Roger O’Donnell, il basso martellante e cupo di Simon Gallup. “Alone”, la canzone di apertura, è una lezione pratica su come la musica rock possa invecchiare con grazia.
È una produzione epica, da nubi temporalesche sulla cima della montagna. Rifugge l’energia insensibile della giovinezza in favore di una riflessione sobria, avvolta in una progressione di accordi meravigliosamente pensierosa. Quando Robert Smith finalmente si avvicina al microfono, dopo tre minuti, e proclama, “Questa è la fine/Di ogni canzone che cantiamo”, sembra apocalitticamente giusto, come lo strano conforto di aver realizzato la tua peggiore paura.
Difficile trovare dei brani in Songs of a Lost World che richiamano gli anni da “rock stadium” che hanno attraversato i Cure. Si azzarda un pò il funk gotico e d’acciaio “Drone:Nodrone” grazie alla chitarra di Reeves Gabrels, il nuovo “ragazzo” della band, con solo 12 anni di servizio col il wha wha torturato in quel brano e il fuzz su “Warsong”. Assoli che hanno la stessa intensità delle chitarre usate nelle band shoegaze, come una sorta di dolce carezza col guanto d’acciaio.
Mentre band di vecchi rocker (Rolling Stones) ci tengono a far sapere al mondo che loro sono vivi e vegeti, i Cure, al contrario dimostrano tutta la caducità della vita, ne sono degli stupendi testimoni. La band ha scolpito il suo sound (gotico, epico e tuttavia stranamente minimale) e si è guadagnata il diritto di rimanerci. Songs of a Lost World sembra denso e importante, un album gigantesco come una quercia che incombe su tutto ciò che esamina. Ogni elemento conta: ogni corda di basso pizzicata, ogni rullante, ogni rabbioso strimpellare di chitarra o ogni delicata nota di pianoforte sembra vitale.
Come dicevamo inizialmente Songs of a Lost World non porta innovazioni nel loro sound ma è una definitiva caratterizzazione del loro stile. Forgia inequivocabilmente il loro sound eliminando orpelli e tentazioni pop. Il cantato di Robert Smith in “Alone” dopo tre minuti dall’inizio del pezzo ne è una delle prove definitive. Le otto canzoni dell’album portano racconti di morte acutamente potenti. (“I Can Never Say Goodbye” parla dell’inaspettata scomparsa del fratello maggiore di Smith, Richard). Mortalità (la bellissima “And Nothing Is Forever”); e la difficoltà di essere nel momento presente (“All I Ever Am”). La voce di Smith è ancora uno straordinario strumento di liberazione dopo tutti questi anni. I suoi migliori passaggi (“And the birds, fall out of our skies/And the words, fall out of our minds”, da “Alone”) rimangono meraviglie di economia e abilità.
Mentre risuonano le ultime note di “Endsong” brano di chiusura dell’album, si ha la sensazione che questo album è la chiara rappresentazione di uno stato d’animo. Meravigliosamente comune e spaventosamente attuale in questo momento storico di confusione e crollo di ideali. Mentre passano anni e certezze le canzoni dei Cure sono un conforto sinistro sull’ineluttabilità del tempo che passa e della fine. Carezza e conforto, pianto e abbraccio, quelle canzoni possono essere un balsamo e un caldo conforto nella notte che avanza.
So, so
Che il mio mondo è invecchiato
E niente è per sempre
So, so
Che il mio mondo è invecchiato
Ma in realtà non importa
Se dici che staremo insieme
Se prometti che sarai con me alla fine
(Nothing is forever)
a cura di
Beppe Ardito
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