Giangrande e il suo disco “Beehives of Resistance”

Giangrande e il suo disco “Beehives of Resistance”
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Un percorso attraverso l’esperienze e le sensazioni che viene condensato in un disco. Così si potrebbe riassumere “Beehives of Resistance”, il terzo album di Giangrande, ma il primo prodotto interamente da lui.

Un progetto personale e unico, la cui idea è di trasmettere qualcosa di più profondo, rendendoci partecipi della sua vita passo dopo passo. Un cambiamento voluto dallo stesso artista dopo i primi due dischi, per trovare la propria dimensione.

L’INTERVISTA

Ciao Giangrande! Grazie del tempo dedicatoci, e non indugiamo oltre:
Un disco simbolo di un percorso, da dov’è nato il bisogno di raccontarlo e credi che possa essere d’aiuto per l’ascoltatore?

Questo è il primo disco, di quelli realizzati in studio, di cui ho curato personalmente la fase produttiva senza affidarmi ad un produttore. Alla base di questa scelta ci sono una spontaneità ed un’urgenza che definirei quasi giovanili.
Mi sono concentrato solo sulla musica e nient’altro, in un certo senso questo album somiglia un po’ ad un’opera di utopia che mi aiuta a camminare, muovendosi di continuo, così come fa la linea dell’orizzonte quando la inseguiamo, sempre un passo più in là.

Qual è il brano che per primo hai pensato per questo progetto? Quale lo rappresenta di più?

Il primo brano che ho scritto è Metal Rain e infatti è il primo che compare in scaletta. Stavo riflettendo in quei giorni sul senso che ognuno di noi da al cammino che ci separa dalla realizzazione dei nostri desideri o dei nostri sogni e di come sia importante lasciar andare le zavorre che ci legano a terra e non ci permettono di liberarci davvero.
Avevo rivisto da poco il documentario del funambolo Philippe Petit e ho immaginato la storia di un uomo contemporaneo qualunque che si ritrova nella medesima condizione del funambolo francese:
affrontare un cammino così impervio e dover, per riuscire a oltrepassare il limite, abbandonare le cose superflue e troppo pesanti per il cammino.

Cosa sono gli “occhi elettronici” di cui parli nell’omonimo pezzo?

Viviamo in un mondo dominato dalla tecnologia, alla quale ormai abbiamo affidato ogni aspetto della nostra vita, senza porci il problema di come spesso, proprio la tecnologia, abbia reso le nostre vite più complicate ed involute di quanto potessimo immaginare…
Il brano “Electronic eye” parla proprio di questo.

Perché la scelta di utilizzare l’inglese piuttosto dell’italiano?

Ho trascorso gran parte della mia vita professionale all’estero e i miei riferimenti sono stati in gran parte legati alla musica cantata in inglese. Trovo che per il mio modo di comporre e di utilizzare la voce:
il modo che ho di modularla o di cambiare i registri, l’inglese sia quella che riesce di più a farla somigliare ad uno strumento, ad un suono.
Con l’italiano mi trovo in una continua lotta per cercare di far entrare in metrica parole spesso impossibili da far suonare come vorrei.

Per concludere, una prospettiva terrificante: da domani la musica smette di esistere in ogni sua forma. Cosa faresti per continuare a sentirti te stesso?

Ti rispondo prendendo in prestito le parole di un grande uomo del passato: “Io amo colui che ha l’anima così traboccante da dimenticare se stesso e tutte le cose che sono in lui: tutte le cose diventano così il suo tramonto”
F. Nietzsche.

a cura di
Luca Pensa

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