Donne dell’anima mia: Isabel Allende racconta il suo femminismo

Donne dell’anima mia: Isabel Allende racconta il suo femminismo
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Donne dell’anima mia è il nuovo libro della scrittrice cilena Isabel Allende, edito da Feltrinelli e uscito in Italia nel novembre 2020.

Il romanzo racconta del personale percorso di adesione al movimento femminista, da parte della Allende. L’opera parte da alcuni aneddoti della sua infanzia e dell’adolescenza, per poi arrivare all’età adulta, caratterizzata dal successo editoriale derivatole dai suoi libri. Successo che inizialmente non è stato riconosciuto, in quanto opere scritte da una donna.

Il romanzo, poi, arriva a parlare dell’età odierna della scrittrice: la vecchiaia, forse la più difficile da affrontare e accettare, a causa degli stravolgimenti del fisico e della bellezza esteriore, ormai sfumata. Vengono affrontati temi tabù, come il rapporto con la sessualità in età avanzata e quello con l’altro sesso.

La Allende racconta anche del suo Paese, come ha sempre fatto nei suoi libri. Il Cile è uno degli Stati, come lei stessa ammette con amarezza, con il più alto tasso di violenza domestica al mondo. Ma è anche un luogo dove la colonna portante della famiglia è la donna, specialmente nelle classi lavoratrici, dove i padri vanno e vengono, e spesso non tornano più.

Le madri, invece restano e portano avanti la famiglia, a volte occupandosi anche dei figli degli altri. Ciò potrebbe far credere che in Cile ci sia un matriarcato (e infatti sono molti quelli che lo pensano) ma queste dinamiche esistono solo all’interno della famiglia.

Nella società cilena, così come nella politica, nell’economia e nella religione, sono gli uomini a dettare legge.

La Allende parla anche della madre Panchita, donna avvenente e arguta, che non mai potuto realizzarsi a causa del profondo maschilismo, insito nella società cilena dell’epoca.

Sposatasi giovanissima e contro il volere dei genitori, Panchita é stata poi abbandonata dal marito e si è ritrovata sola, con tre figli da accudire. Costretta a tornare dalla sua famiglia e non avendo mai lavorato, non disponeva né di soldi né di libertà. Oltre a ciò, diventa bersaglio dei pettegolezzi della gente, perché bella e civettuola.

Panchita aveva anche una grande passione per la pittura, talento mai sviluppato, poiché considerato semplicemente un passatempo e non un’abilità sulla quale investire.

Avrebbe potuto lottare per una maggiore indipendenza, per vivere la vita che desiderava e sviluppare il suo enorme potenziale invece che sottomettersi, ma la mia opinione conta poco, perché, certo, appartenendo alla generazione del femminismo, ho avuto possibilità che a lei erano mancate.

Già dall’infanzia, la Allende, ostenta un carattere difficile: quelle che nei fratelli sono descritte come qualità ( ostilità, atteggiamento di sfida e messa in discussione delle regole) in lei, donna, vengono viste come un’anomalia. Una sorta di stranezza da curare, tant’è che la stessa Panchita voleva mandarla da uno specialista.

Le viene detto che se continuerà ad avere “certe idee, si farà la fama di maschiaccio.

In realtà, la piccola Isabel stava già capendo le gravi ingiustizie che venivano riservate alle donne della casa: a partire dalle domestiche fino a sua madre, succubi e vittime, senza voce né mezzi per far valere i propri diritti. Le prime perché povere mentre la seconda, perché colpevole di aver infranto le regole prestabilite.

Ed è proprio dentro le mura domestiche, che la Allende inizia a sviluppare una grande sete di giustizia e di cambiamento.

L’autrice sostiene il grande potenziale femminile e l’importanza della sorellanza, per creare una società nuova.

In un passaggio del libro racconta di quando, con una sua collega di lavoro, fece visita ad una piccola comunità del Kenya. In quel villaggio sperduto incontrarono donne di tutte le età, che lavoravano e si aiutavano a vicenda. Mogli abbandonate dai mariti, vedove, ragazze madri e donne molto anziane che si dovevano prendere cura dei nipoti o dei bisnipoti.

Persone che avevano avuto una vita difficile e che avevano perso quasi tutti i membri della loro famiglia a causa dell’AIDS. Persone che però, nonostante tutto, avevano ancora tanta voglia di vivere, scherzare e prendersi in giro.

Tant’è che accolsero lei e la sua amica con dei bellissimi canti di gioia.

Non faccio fatica ad immaginare gruppi di donne come quelle di Kibison, di ogni razza, credo ed età, sedute in cerchio a condividere le proprie storie, le battaglie e le speranze, piangendo, ridendo e lavorando insieme. Che forza incredibile questi cerchi! Milioni di essi, collegati tra loro potrebbero porre fine al patriarcato. Bisogna dare una possibilità a quest’immensa risorsa naturale che è l’energia femminile.

L’Associazione The Isabel Allende Foundation nasce nel 1996, in memoria della figlia Paula Frias, alla quale è stato dedicato anche un famoso romanzo, Paula, pubblicato nel 1995.

Paula è morta prematuramente all’età di 28 anni, a causa di una rara malattia del sangue e, nel corso della sua breve vita, ha lavorato nelle comunità povere in Venezuela e in Spagna. Paula ha dedicato molto tempo ad aiutare gli altri, tant’è che il suo motto era:

Qual è la cosa più generosa che posso fare in questo momento?

L’obiettivo dell’organizzazione nasce proprio da questa frase: finanziare progetti che riguardano la sanità, l’educazione, l’indipendenza economica e la protezione contro la violenza e lo sfruttamento. Inoltre dal 2016, si dedica anche alla questione dei rifugiati, specialmente nella zona fra Messico e Stati Uniti.

L’idea della Fondazione è nata nella mente dell’autrice a seguito del suo percorso di fuoriuscita dalla depressione, dopo la morte di Paula. Un cammino di rinascita iniziato in India, dove la Allende si recò, assieme al marito e una cara amica, per ritrovare sé stessa.

Ciò che la colpì, fu un episodio in particolare. Una donna molto povera, incontrata per caso in una strada del Rajasthan le diede in mano un fagotto, esortandola a prenderselo. Spostando gli stracci, vide che dentro vi era una neonata. La donna voleva offrirle sua figlia perché, come molti le spiegarono in seguito, nessuno vuole una femmina, in India. E così succede anche in tanti altri paesi del mondo. Questo episodio la turbò così tanto, che le diede l’idea per un progetto: creare un’associazione per aiutare le bambine e le donne in condizioni di estrema povertà e mancanza di diritti.

La fondazione si finanzia con i proventi dei suoi libri e, in questo modo, anche la figlia Paula, continua a dare il suo contributo al mondo.

a cura di
Silvia Ruffaldi

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Silvia Ruffaldi

Silvia ha studiato Scienze della Comunicazione a Reggio Emilia con il preciso scopo di seguire la strada del giornalismo, passione che l’ha “contagiata” alle superiori, quando, adolescente e ancora insicura non aveva idea di cosa avrebbe voluto fare nella vita. Il primo impatto con questo mondo l’ha avuto leggendo per caso i racconti/reportage di guerra di Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Da lì in poi è stato amore vero, e ha capito che se c’era una cosa che voleva fare nella vita (e che le veniva anche discretamente bene), questa doveva avere a che fare in qualche modo con la scrittura. La penna le permette di esprimere se stessa, molto più di mille parole. Ma dato che il mestiere dell’inviato di guerra può risultare un tantino pericoloso, ha deciso di perseguire il suo sogno, rimanendo coi piedi ben piantati a terra e nel 2019 ha preso la laurea Magistrale in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. Delle sue letture adolescenziali le è rimasto un profondo senso di giustizia, e il desiderio utopico di salvare il mondo ( progetto poco ambizioso, voi che dite ?).

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