Pearl Jam, Gigaton: qualcosa continua a colpirti
Quando il tuo inconscio elabora immediatamente, ma ti accorgi troppo tardi delle abrasioni
Gigaton, ultima fatica dei Pearl Jam, è disponibile ovunque. Finalmente. Già, perché gli ultimi mesi non sono stati un’attesa. Sono stati uno stillicidio.
Prima Dance of Clayrvoiant destabilizza molti, fino a risultare invero interessante. Poi Superblood Wolfmoon dà sollievo a chi voleva qualche chitarra rassicurante. Più recentemente Quick Exit ha messo d’accordo un po’ tutti (ma non tutti).
C’è ancora qualcuno che cerca col lanternino tracce di Grunge assenti da almeno ventiquattro anni. Poco male: di questi tempi, tenersi occupati anche con operazioni superflue è quasi un bene.
I Pearl Jam hanno fatto un buco nell’acqua? Oppure Gigaton è un incredibile e incompreso capolavoro?
Il suono, le prospettive, le volontà… Quante variabili. Eddie Vedder e soci non si sono mai adagiati troppo sugli allori, hanno sempre cercato di cambiare, sperimentare col rischio di sbagliare (benché abbia apprezzato Lighting Bolt all’uscita, ammetto che nel complesso non è invecchiato benissimo). Purché si vada avanti, purché si guardi avanti.
Gigaton è il riflesso di tutto ciò, una ricerca di risposte a dubbi enormi sul futuro dell’ambiente, del mondo. Anche di noi stessi. Si parte riflettendo sul pianeta, si arriva scavando un po’ nel profondo della persona. È un circolo vizioso, o virtuoso, dipende da quanto si è ottimisti o pessimisti.
Non è facile. Cresce poco a poco, perché solo poco a poco è possibile mettere più a fuoco il tutto. Può capitare di addormentarvi durante un primo ascolto, così come rimanere ipnotizzati dopo la seconda o terza chance. Gigaton è particolare.
Non si può dire sia un brutto disco, anzi. Ma “particolare” è il termine che meglio descrive la sua natura. Si scopre poco per volta, si assimila a piccole dosi. Tuttavia, sin dal primo ascolto qualcosa si aggrappa su di te.
Non te ne accorgi perché non pesa. Te ne accorgi perché lo percepisci appena, solo dopo un po’. Difficile quantificare in una precisa misura temporale. Sei lì, per qualche ora, con questa sensazione.
Vuoi capire, pigi di nuovo play
Non hai particolari sussulti. Saltelli con Take The Long Way. Pensi con Comes Then Gone. Poi arriva un sospiro. Non da Eddie, ma da te. Nel frattempo, River Cross ha preso l’avvio.
Capisci di averla già ascoltata la scorsa estate, a Firenze, con Vedder alticcio. L’ha piazzata qui, con Gossard, McReady, Stone e Cameron. Capisci che è lei che si appende a te, con calma, senza strattonarti, senza strozzarti.
Anche se la prima volta l’hai ascoltata distrattamente, già si era aggrappata. Ancora devi realizzare cosa sta accadendo dentro di te, che già ha cominciato a graffiarti. Con delicatezza, ma qualche abrasione inizia a palesarsi.
La particolarità dei Pearl Jam è questa: pensi che non possano più colpirti, fino a quando non ti accorgi del contrario (troppo tardi). È un bene, perché significa che qualcosa brilla ancora. In loro, come in te.
Lo scopo di un recensore è quello di fugare i dubbi del lettore, di mostrare una prospettiva riguardo un disco. Il qui presente scribacchino sa solo dirvi che continuano a colpire. Quando non te l’aspetti, quando pensi che, sì, l’impegno sociale c’è e rimarrà sempre, che in Gigaton la forma non sempre sostiene la sostanza.
Ed è lì, poi, che rimani fregato. Di nuovo. Capisci nuovamente che, se vogliono, in un modo o nell’altro continui a esser loro debitore.
Se anche una sola canzone inizia a scavare dentro di te senza che tu te ne accorga subito, è vittoria.
a cura di
Andrea Mariano
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