Delta dei Mumford & Sons: la recensione

Delta dei Mumford & Sons: la recensione
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Quella dei Mumford & Sons è una delle storie di successo più improbabili di questi ultimi anni. Chi l’avrebbe mai immaginato che una band che ha fatto di banjo e gilet di tweed il proprio marchio di fabbrica avrebbe potuto scalare le classifiche di Inghilterra, prima, e Stati Uniti, poi? Io no di certo.

Sembrano fottuti amish“, disse senza girarci troppo intorno Liam Gallagher. E, in tutta onestà, il mio pensiero non è mai stato troppo lontano dal suo.

I Mumford & Sons fecero la loro apparizione sulla scena musicale internazionale nel 2008 e seppure nemmeno ai tempi potevano definirsi un’eccezione, perché di band indie-folk ce n’erano già tante, va riconosciuto loro il merito di aver portato il genere in alto nelle classifiche.

L’album precedente a Delta, Wilder Mind, del 2015, doveva suggerire qualcosa. La band aveva quasi rinnegato il folk, a favore delle chitarre elettriche. I paesaggi sonori erano ambiziosi, ma anche intensi. Pur non apprezzando il disco, apprezzai il coraggio.

Con Delta, il loro quarto album, uscito il 16 novembre scorso, si continua la strada intrapresa tre anni fa, raddrizzando il tiro. Dentro si possono ritrovare tocchi di jazz e di elettronica, e gli immancabili strumenti acustici del passato. Se siete i fan della prima ora sarete felici di sapere che sono ritornati i banjo. Ma, nonostante i temi e le ispirazioni di Delta siano piuttosto serie, perché si parla di morte, depressione e separazioni, il disco non è eccezionale. Si continua sulla strada di Wilder Wind, ma il risultato non è dei migliori e i Mumford & Sons sembrano fare un passo indietro.

La traccia che apre il disco è “42“, dove le atmosfere lunari e i cori invadono la scena. Il singolo, “Guiding Light“, soddisferà i fan storici. Anche “Forever” tenta di riacciuffare il vecchio suono del gruppo, ma il ritornello rende tutto un po’ faticoso, e fastidioso: “Love with your eyes / Love with your mind / Love with your… / Dare I say forever“.

Delta” è uno dei brani migliori del disco e mostra uno scorcio fugace di ciò che questa band potrebbe essere se facesse più focus su quello che vuole essere. Anche le altre canzoni senza crescendo ruggenti non sono poi così male. “Woman” e “Picture You” suggeriscono un disco più silenzioso e avvincente.

Wild Heart” dà lustro al talento vocale di Mumford su un tappeto di tamburi, piano e chitarra acustica. Ci sono poi anche ballate acustiche semplici, come “Beloved“, con lussureggianti arrangiamenti orchestrali, che a volte, come nel caso di “If I Say“, esagerano e finiscono in un territorio quasi disneyano per quanto sono stratificate e barocche.

Se esistesse ancora una serie televisiva come O.C. qualche canzone di Delta ci sarebbe finita dentro, magari ad accompagnare una scena triste, tra Marissa e Ryan. “Vieni e soffri qui“, canta Mumford in “Slip Away“, e l’impressione è che troppo spesso serietà sia confusa con tristezza. Quindi la sensazione è che queste ossessioni oscure appesantiscano la musica.

I Mumford & Sons sono ancora in grado di scrivere buone canzoni, ma forse devono decidere cosa vogliono essere.

a cura di
Daniela Fabbri

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Daniela Fabbri

Sono nata nella ridente Rèmne, Riviera Romagnola, nel 1985. Copywriter. Leggo e scrivo da sempre. Ho divorato enormi quantità di libri, ma non solo: buona forchetta, amo i racconti brevi, i viaggi lunghi, le cartoline, gli ideali e chi ci crede. Nutro un amore, profondo e viscerale, per la musica, in tutte le sue forme. Sono fermamente convinta che ogni momento della vita debba avere una colonna sonora. Potendo scegliere, vorrei che la mia esistenza fosse vissuta lentamente, come un blues, e invece sono sempre di corsa. Mi piacciono gli animali. Cani, gatti, procioni. Tutti.

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