Il nuovo album di Bon Iver è un racconto tra folk sgraziato e confessioni scomposte. Un disco che non consola, ma resta nel modo più onesto possibile: lasciandoti a metà
Non è un disco, è un cortocircuito emotivo. Una parabola inversa in cui Dio non scende tra gli uomini, ma Bon Iver – aka Justin Vernon – si arrampica dentro sé stesso, inciampa nei fili scoperti della memoria e ci lascia lì, a raccogliere i pezzi senza manuale di istruzioni.
“SABLE, fABLE” non è stato concepito per piacere al primo ascolto. Né per restare. Ma per colpire quando hai smesso di aspettarti qualcosa – come quei messaggi alle tre di notte che non chiedono nulla, ma ti tengono sveglio.
Cuore glitch, polmoni folk
Se Bon Iver fosse un genere letterario, questo disco sarebbe un racconto breve di Raymond Carver riletto da James Blake in hangover sentimentale. Se fosse un corpo, avrebbe organi sfalsati, frequenze sbagliate, cuore a destra e polmoni troppo vicini alla gola.
Eppure funziona.
Anzi: è proprio lì che funziona.
Vernon non canta più per salvarsi – quello lo ha fatto dieci anni fa, quando bastava una cabina nel Wisconsin e due falsetti ben piazzati per rimettere insieme le ossa rotte della malinconia indie. Qui si mette a nudo come si fa quando non hai più niente da dimostrare.
È un’evoluzione coerente di un percorso che, da “For Emma, Forever Ago” (2007) in poi, ha saputo trasformare la vulnerabilità in estetica, passando per l’intimismo cristallino di “Bon Iver, Bon Iver” (2011), l’astrazione aritmica di “22, A Million” (2016) e la nebbia evanescente di “I, I” (2019). Se allora cercava un equilibrio tra silenzio e software, oggi Vernon si muove oltre il confine: non racconta, allude. Non rivela, evoca.
La sua voce è un fantasma che cambia forma ad ogni traccia: ora robotica, ora intima, ora distorta come una telefonata da un’altra dimensione. È come se stesse cercando un linguaggio nuovo o, più semplicemente, come se avesse smesso di cercarlo e si fosse arreso alla bellezza dell’incomprensione.
Delay e frammenti da decifrare
Il disco si apre con Things Behind Things Behind Things, una carezza che fluttua tra gospel e suoni elettronici, dove l’acustico e il digitale si fondono in una danza silenziosa. Vernon canta il desiderio di liberarsi dal peso che ci sommerge, come a voler strappare via il presente per respirare di nuovo (“I would like the feeling gone”). Perché a volte basta un attimo, un’invocazione, per lanciarsi oltre l’insoddisfazione che ci tiene prigionieri.
Come una vecchia cicatrice che non guarisce mai, S P E Y S I D E è una confessione, un’accettazione del non ritorno, della perdita che si è fatta vita (“Nothing’s really something now the whole thing’s soot”). La traccia, minimalista e terribilmente cruda, non ha bisogno di altro che di una linea melodica sussurrata che sembra svanire nell’aria come fumo.
Con Everything Is Peaceful Love la luce diventa nitida, come un raggio di sole che squarcia la nebbia. La melodia si intreccia con la liricità di un testo che sembra volerci rassicurare: la serenità è possibile, anche se fragile, anche se imperfetta.
La passione diventa palpabile con Walk Home. Il testo “Can we stay inside this place? Pull me close up to your face” è un invito a fuggire dal mondo, a cercare rifugio nell’intimità, dove il tempo si ferma. E la produzione, che mescola elettronica e sonorità acustiche, sembra accompagnarci in un viaggio sensuale e vulnerabile, come un abbraccio che non vuole più sciogliersi.
“Can I get a rewind? Just this once, if you don’t mind” non è forse questa la preghiera di chi cerca di rimediare a ciò che è stato? Insieme a Dijon e Flock of Dimes, Vernon ci regala Day One, una traccia electro-soul che racconta di una rinascita e consapevolezza dopo aver accettato un cambiamento.
C’è un dolore profondo nelle liriche di If Only I Could Wait: l’attesa, la speranza, ma anche la frustrazione. La voce di Danielle Haim, delicata ma intensa, si fonde con quella di Justin, creando un duetto che è al contempo un atto di amore e di resa. Le corde degli archi si intromettono come un sospiro di stanchezza, il respiro di chi sa che il desiderio non sempre arriva al momento giusto.
E poi arriva la chiusura. Au Revoir non è un addio definitivo, ma un arrivederci: la fine è solo il preludio di un nuovo inizio. La musica, come la vita, è un insieme di momenti che si intrecciano, che vanno e vengono, ma sempre con una promessa di rinascita.
Nel corridoio della memoria emotiva
Musicalmente, l’album è un laboratorio sensoriale: field recordings, synth a bassa fedeltà, chitarrine svogliate e armonie vocali che sembrano arrangiate da un’intelligenza artificiale con l’anima rotta. Ogni brano è un paesaggio sonoro più che una canzone, un luogo mentale in cui entri e ti perdi, come se Monkey Island fosse ambientato a Parigi e Broken Sword nei Caraibi.
Eppure, c’è una convergenza sotterranea. “SABLE, fABLE” è un lavoro interiore sul linguaggio e sull’assenza, sull’elusione come forma d’arte, sull’identità come glitch. È l’album che Bon Iver poteva scrivere solo adesso, in un presente in cui tutto è provvisorio, editabile, disorientato.
I testi non spiegano, balbettano con grazia. Parlano di lutti sospesi, disamori che non fanno rumore e nostalgie per ciò che non è mai successo, ma che continuiamo a ricordare. Un disco che non consola e non si piega alla playlist da aperitivo colto, ma con una dolcezza ruvida – quasi infantile – ti guarda e ti dice: “non mi devi capire, mi devi sentire”.
E se ti lasci andare, tra le interferenze trovi casa.
Una casa disordinata, storta, ma con la luce accesa nella stanza giusta.
Oh how everything can change
In such a small time frame
You can be remade
You can live again
a cura di
Edoardo Siliquini
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