La Storia e Io: “Se tornano le rane”

La Storia e Io: “Se tornano le rane”
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Simona Baldanzi nasce nel 1977 a Firenze ed esordisce con il romanzo Figlia di una vestaglia blu nel 2006 con Fazi, poi ripubblicato nel 2019 da Alegre. Ha ottenuto diversi premi, tra cui il Premio Miglior Esordio di Fahrenheit Radio Rai tre. Nel 2009 viene pubblicato Bancone verde menta, il suo secondo romanzo, mentre nel 2011 scrive l’inchiesta Mugello sottosopra per Ediesse. La sua scrittura è estremamente prolifica e, negli anni, molte delle sue storie troveranno spazio tra le pagine di quotidiani, riviste e antologie.

È tra i fondatori del blog Scrittori in Causa, che racconta le condizioni contrattuali degli autori. Ha inoltre partecipato Insieme al regista Federico Bondi alla scrittura del soggetto del film Dafne del 2019, vincitore del Premio FIPRESCI nella sezione Panorama della 69° Berlinale.

In linea con la sua esperienza da sindacalista, le sue opere si inseriscono nel filone della letteratura working class. Genere definito non tanto da una struttura narrativa, quanto dal posizionamento dello scrittore. Credo che il concetto sia stato reso estremamente chiaro da Baldanzi stessa in un’intervista:

Scrivere per me è anche rappresentare e viceversa, scrivere è cercare una voce e fare sindacato è mettere insieme le voci, scrivere è fare ricerca su di me e su ciò che mi circonda e fare sindacato è rimescolare ciò che imparo da queste ricerche. Sono mondi che se saputi mettere al servizio l’uno dell’altro possono essere potenti. Il primo atto di riconoscimento di una condizione, di una vita, di una persona, come di una lavoratrice o di un lavoratore è il raccontare. Ci si racconta per riconoscersi, per fare gruppo, per difendersi, per rivendicare, per migliorare. Da sindacalista e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mi capita di scrivere e scherzando dico che faccio spesso la ghostwriter per i lavoratori.

Se tornano le rane

Se tornano le rane, pubblicato nel 2022 da Alegre, fa proprio questo: cerca e da una voce. Ed è capace di creare empatia al di là dell’evento specifico narrato o del territorio che ne fa da sfondo. I capitoli brevi mantengono il ritmo serrato e ogni voce – principalmente femminile – guarda al lavoro con un occhio diverso. Ma tutti gli sguardi in qualche modo tornano lì, anche quelli dei bambini.

Il libro si apre con il licenziamento inaspettato di Giorgia, che si vede costretta ad abbandonare Firenze per fare ritorno nel Mugello. Questo la porta ad una sorta di regressione. Mentre il marito lavora in città, lei e la figlia Camilla trascorrono l’estate nella sua vecchia cameretta.

Questo ritorno, dalla città alla campagna e dalla vita adulta all’infanzia, innesca in lei un processo di autoconsapevolezza. Ritrova la militanza giovanile nel Pci e in Rifondazione, il ricordo delle feste dell’Unità e della Liberazione nei piccoli paesi e si riavvicina ai vecchi compagni.

Riemerge così dallo stato di stallo in cui l’aveva immobilizzata il licenziamento e decide di improvvisare una campagna di volantinaggio all’Outlet.

Outlet – luogo reale e contemporaneamente onirico – che non è solo un parco giochi per adulti ma anche per Camilla che, infatti, trascorre qui le sue giornate. Intervista lavoratori e lavoratrici e raccoglie gli scontrini dimenticati, per potersi inventare storie nuove. Questo la porta a scoprire le differenze di classe.

Gli occhi di Camilla però ci guidano anche attraverso altri racconti, perché a volte è al passato che bisogna guardare per potersi ricostruire. Il gioco preferito della bambina diventa, infatti, tentare di ricostruire il loro albero genealogico. Questo porta le donne della famiglia ad interrogarsi e ritrovare la verità su Anna, antenata di cui non è presente nessuna foto.

Ed è tra nuove e vecchie storie che risulta possibile realizzare che non siamo noi a perdere il lavoro, ma che ci viene tolto. Così come i fiumi continuano a scorrere e un giorno, forse, saranno in grado di riportare le rane.

Bello, triste e toscano

Le prime parole a cui ho pensato quando ho finito di leggerlo sono state: bello, triste e toscano. Le pagine scorrono, infatti, senza mai diventare pesanti e i personaggi sono ben caratterizzati ed estremamente vividi. Giorgia, Camilla, Donatella e Anna hanno ognuna una voce e un tono, capace di raccontare al meglio la loro esperienza. Le tematiche affrontate non risultano mai pesanti o difficili da cogliere.

Non è invece il romanzo in sé ad essere malinconico, ma il retrogusto che lascia. Giorgia ci crede che riuscirà ad inventarsi qualcosa come Camilla giura che racconterà la sua estate corsara. Ma la mia generazione può davvero sperare che le cose cambieranno, che il modo di guardare al lavoro si trasformerà? Non lo so. Però ci rimane il fiume, che “è la cosa più bella che c’è all’outlet”. Triste anche perché chi non vorrebbe tornare in campagna, abbandonare questo affanno che ci hanno fatto credere normale e ricominciare? Ma dove si trova il coraggio di Giorgia? Forse tra la rane.

Toscano per un numero non esatto di motivi. Non è solo il fatto che si svolga tra il Mugello e Firenze, è ogni centimetro di questo libro ad urlare toscanità. Così tanto che ad un certo punto mi sono chiesta se lo avrei amato comunque se non fossi cresciuta a Prato, avendo così modo di riconoscere alcune cose ancor prima che venissero nominate. La risposta è si, ed è proprio il mio albero genealogico a darmela. La storia della mia famiglia working class ha poco a che fare con la Toscana, eppure mi sono riconosciuta nelle pieghe di ogni generazione che Baldanzi racconta.

a cura di
Andrea Romeo

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