Anish Kapoor – “Untrue Unreal”
Nella mostra inaugurata il 7 ottobre a Palazzo Strozzi, siamo catapultati nell’immaginario irreale (UNTRUE) e inverosimile (UNREAL) di uno dei più grandi artisti contemporanei, Anish Kapoor.
Al centro della ricerca di Anish Kapoor ci sono colore e pigmento, superfici riflettenti e deformanti, cera, marmo e acciaio: l’artista sceglie quindi di indagare una dimensione polimaterica in continuo movimento.
Le opere create da Kapoor sembrano appartenere ad un mondo delle meraviglie, in cui niente risulta come è ma tutto appare come non è. Se niente di quello che vediamo è realmente com’è, che cos’è che è davvero reale? Qual è il punto esatto dove abbiamo perso la bussola? In un continuo gioco di pieni e vuoti Kapoor ci vuole indurre a riflettere sulle convinzioni salde e radicate delle nostre vite. E se non fossero così salde?
Gathering Clouds
In Gathering Clouds, una sorta di polittico contemporaneo in cui la forma, il confine e il limite si dissolvono nel momento in cui si cambia la prospettiva dello sguardo. Il pubblico è l’innesco che attiva l’opera, all’interno di un’architettura che non ha la sola funzione di quinta teatrale, ma che si fonde e prende parte all’installazione stessa. Così facendo l’opera, per come è pensata, esiste in un tempo e in uno spazio in cui esiste il pubblico.
Quello a cui Kapoor ci permette di assistere è il continuo dialogo tra le opere e l’architettura, come se fosse parte stessa dell’opera o un’estensione di quest’ultima, in una sorta di visione berniniana.
Opere specchianti
Estensione e dialogo che si presentano nuovamente allo spettatore nella sala dove sono presenti tre opere; tre grandi superfici riflettenti che smaterializzano la realtà e la capovolgono. L’illusione di una realtà altra che distorce non solo la figura riflessa che anche in questo caso è al centro e attiva l’opera, ma altera lo spazio e l’architettura portando lo spettatore in uno spazio indefinito.
Le opere specchianti, le opere dipinte, tutte avevano una specie di pelle. […] La pelle è quello che separa una cosa dal suo ambiente, ma anche la superficie sulla quale o attraverso la quale legittimiamo un oggetto e il confine dove il bidimensionale incontra il tridimensionale.
Visceralità
La pelle, la carne, la materia organica, il corpo e il sangue sono raccontate nella sala dove la pittura unita al silicone si manifesta sottoforma di forme viscerali pulsanti. L’intensità del colore rosso, le lacerazioni, la contrazione delle masse attirano a sé lo spettatore attraverso una sorta di sensualità tattile in costante divenire.
L’attrazione emanata da questi dipinti esprime ancora una volta la dicotomia dentro e fuori, vuoto e pieno; si tratta di intimità sventrate, esposte, parlanti sia in vita che in morte.
Svayambhu
La metafora della nascita è la prima che incontriamo espressa dall’opera Svayambhu, termine sanscrito che significa “sorto da sé”, l’opera diventa una sorta “immagine” acheropita cristiana contemporanea. Le immagini acheropite sono considerate create non da mano umana ma direttamente da Dio.
In questo caso l’opera è tradotta in un grande blocco di cera che priva dell’intervento dell’artista si sposta attraversando lo spazio e l’architettura dello storico palazzo fiorentino rendendolo partecipe. Il passaggio attraverso due porte e più stanze fa sì che l’opera assuma la forma della dimensione che attraversa e al tempo stesso lasci traccia di sé.
Il colore rosso di quest’opera chiama la vita, la violenza e al tempo stesso la morte ci restituisce una sorta di dimensione ciclica, un Uroboro e una continuità che solitamente sentiamo come una linea retta.
Ancora una volta Kapoor ci presenta l’opportunità di diversi punti di vista che assumono forme e colori che destabilizzano e rendono incerto tutto ciò che crediamo di sapere.
a cura di
Letizia Servello
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