Close: l’infanzia di Léo e Remìs (SPOILER)

Close: l’infanzia di Léo e Remìs (SPOILER)
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Dopo essere stato presentato all’ultima edizione del Festival del cinema di Cannes, il nuovo film di Lukas Dhont è sbarcato anche nelle sale italiane. Selezionato per rappresentare il Belgio ai prossimi Academy Awards, Close porta sullo schermo, con grande sensibilità, il tema dell’identità sessuale.

Léo e Remìs sono migliori amici, Léo passa la maggior parte del suo tempo a casa dell’amico ma l’inizio della scuola cambia le cose. Le insinuazioni da parte dei compagni di classe porta Léo ad allontanarsi da Remìs; mentre il primo riesce ad integrarsi, l’altro si chiude sempre di più, fino ad arrivare a fare un gesto estremo. Léo si dovrà riprendere da solo dal lutto del suo migliore amico.

Da un regista come quello di Girl (2018) ci si poteva aspettare un’altra storia di formazione, di disagio giovanile. Prevedibilmente (che sia un difetto o meno lo deciderà lo spettatore) Lukas Dhont fa uscire “Close”, co-sceneggiato da Angelo Tijssens, come era già successo per il film precedente

La storia di due bambini fragili
Léo e Remìs

Ogni volta che si guarda un film sull’infanzia si tende sempre ad uscire dalla visione arricchiti di qualcosa di ovattato, candido e ingenuo come pensiamo essere il mondo dei bambini. È successo così per “Petit Maman” o “Tomboy” di Celin Sciamma, è successo per il primo atto de “Le otto montagne”. Non succede, però, per Close, che con il suo titolo ci anticipa e ci inganna: ci anticipa tutti i close-up che vengono fatti sui personaggi e sul protagonista, Léo. Ci inganna perché di “vicino” non c’è nulla in questo film, a parte la macchina da presa.

Lo vediamo alla fine del primo atto, quando i due bambini prendono strade differenti, e per tutta la durata del film, durante cui nessuno sarà vicino a Léo. C’è solo lui al centro dell’inquadratura e tutto il resto, a volte, neanche è messo a fuoco. Ciò è perfettamente in linea con lo spirito del film, che, prendendo Léo, lo mette sotto la lente d’ingrandimento, o meglio, sotto una macchina da presa ed analizza un processo di guarigione da più ferite.

Le ferite di Léo
Léo e Remìs

La prima ferita che affligge da subito Léo è il pregiudizio. Sentendosi estirpato, proprio come i suoi fiori, dal clima che aveva preceduto l’inizio della scuola, si sente snaturato. Quando la sua amicizia con l’amico Remìs viene giudicata troppo affettuosa, la prima reazione di Léo è quella di allontanarsi fisicamente dal suo migliore amico. Durante tutta la prima parte del film, però, osserviamo come Léo lo tenga sempre d’occhio, seppur da lontano.

Quando Remìs, il suo migliore amico, sembra sereno, anche lui lo è. Staccarsi e intraprendere strade diverse nella vita sarebbe il normale corso degli eventi, che porterebbe la ferita di Léo a rimarginarsi col tempo. Ecco, però, che Close distrugge le nostre certezze: Remìs, un bambino profondamente sensibile, arriva a suicidarsi. Un gesto estremo, che nell’immaginario comune appare lontano dalla sfera fanciullesca.

Il motivo di questo gesto

Per la madre il gesto compiuto da Remis è incomprensibile, mentre per il suo migliore amico è tutto chiaro: è colpa sua, del suo allontanamento. Questo film può parlare dell’espiazione del peccato di Léo, oppure dei veri motivi del gesto di Remìs, che si nascondono nelle inquadrature e che vediamo uscire ed entrare dallo schermo senza troppa cura: i genitori.

Quando un’altra ferita si viene a creare entra in gioco un sentimento che ha poco a che fare con il mondo dei bambini e con i film che li vedono protagonisti: il senso di colpa. Close, quindi, oltre ad essere a suo modo perfetto a livello di messa in scena, ci introduce in un mondo di “bambini grandi”.

Se è vero che in realtà i bambini capiscono tutto, allora questo film introduce nel mondo dei bambini avvenimenti e dinamiche tipiche dei grandi, che vengono affrontate, però, meglio da loro che dai grandi stessi. Il lutto, il senso di colpa, la consapevolezza, il superamento di un trauma: pezzi di vetro che dissanguano il cuore di Léo.

Il corpo
Léo e Remìs

La dimensione fisica è tutto ciò che conta in questo film. Quando Léo e Remìs si separano lo fanno, prima di tutto, in un’inquadratura in cui le loro bici, che fino ad allora avevano percorso la stessa strada, prendono due strade diverse. I due non avranno mai uno scontro verbale, un litigio, ma li vediamo più volte scontrarsi fisicamente e il lavoro fatto sul sonoro, a tal proposito, è stupendo. Sentiamo i contatti violenti e acidi tra i corpi dei protagonisti, i loro sospiri affannati. Ancora, nel periodo in cui Léo deve riprendersi dal trauma che ha subito, lo vediamo cadere sul ghiaccio della pista da Hockey, correre, sudare, rompersi un braccio.

Tutto ciò che è fisico rispecchia le parole che, disgraziatamente, in questo film i genitori non rivolgono ai figli. È per questo che quando Léo guarisce dentro, c’è una dissolvenza, e la scena seguente mostra quest’ultimo che si toglie il gesso.

Ma soprattutto, quando Léo pone delle domande a chi lo circonda, pone delle domande soprattutto pratiche, del tipo “ha sofferto?”, “chi l’ha trovato?”

Il finale

Il momento che merita un capitolo a parte. Nessuno parla con questo bambino, il film sembra essere sempre un’occasione di dialogo evitato, un’occasione di empatia mancata. Invece, questo bambino ne avrebbe bisogno. Se Léo supera il lutto, lo fa solo camminando sulle sue gambe, cascando e rialzandosi.

Capisce da solo che il suo migliore amico, suo fratello, non lo lascerà mai solo. Lo capisce dopo una corsa liberatoria tra i fiori, la stessa dell’inizio del film. Léo si ferma, lo vediamo di spalle, si gira verso la macchina da presa e sente il respiro affannato di Remìs. Lui non lo vede, noi non lo vediamo. Tutti abbiamo sentito un respiro affannato, qualcosa che viene dalla fatica, da un corpo, da una vita.

La citazione di Truffaut
Léo e Remìs

Poco prima dell’annuncio della morte di Remìs, c’è un carrello laterale, in cui il protagonista, insieme ad i suoi compagni di scuola, corre verso la spiaggia, si ferma davanti alle onde e si gira. Léo non guarda la macchina da presa. Chi nel 1959, invece, la macchina da presa la guardò, era Jean-Pierre Léaud, in “I 400 colpi” di Francois Truffaut.

Oltre ad essere uno dei film simbolo della Nouvelle Vague, quello, era un film di protesta contro due istituzioni: la famiglia e la scuola. Il protagonista di quel film, infatti, è costretto a crescere da solo, e su quella spiaggia si trova dopo essere fuggito da un collegio. Guarda la macchina da presa con uno sguardo duro e gelido, con aria di sfida.

In Close, invece, la corsa su quella spiaggia, Léo, la fa proprio con i suoi compagni di scuola. Proprio la scuola, in quante istituzione, sarà l’unica che proverà a far elaborare il lutto al protagonista. La citazione è un segno che, se le scuole sono cambiate e si sono evolute, nella famiglia è rimasto quel silenzio straziante in cui non si parla di certe cose, esattamente come succedeva nel ’59. La frustrazione dell’assenza di dialogo è rimasta quella che ha portato Truffaut a realizzare un caposaldo della cinematografia francese e mondiale come I 400 colpi.

Non a caso l’ultima inquadratura di Close è uno sguardo in macchina, esattamente come quella del film di Truffaut. Questa volta, però, lo sguardo è più dolce, non è di sfida ma di accoglienza. Il mondo dei grandi che tanto l’ha ignorato, Léo lo accoglie col sorriso, dimostrando la superiorità e la vincita definitiva del mondo dei bambini, che ci ostiniamo a raccontare ma che non conosciamo.

a cura di
Emma Diana D’attanasio

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