“Goodbye, Dragon Inn”: vent’anni di un classico

“Goodbye, Dragon Inn”: vent’anni di un classico
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Film taiwanese diretto da Tsai Ming-liang, uscì nelle sale il 12 dicembre del 2003.

A quasi vent’anni dunque dalla sua prima apparizione cinematografica, riesce ancora a colpire lo spettatore per il suo sguardo contemplativo e realistico sull’esperienza stessa della visione, e per il suo aspetto fortemente simbolico. Un film che per il suo essere riflessione sul cinema in quanto proiezione e momento collettivo, andrebbe visto in sala.

Di cosa tratta il film

Ci troviamo nel vecchio e decrepito cinema Good Fortune di Taipei, prossimo alla chiusura definitiva. Lì viene proiettato per l’ultima volta il wŭxiá (genere tipicamente cinese, che racconta le gesta degli eroi della tradizione locale, e paragonabile all’occidentale “cappa e spada”) “Dragon Inn” (1967) di King Hu. Durante la proiezione, in una sala apparentemente deserta, si muovono strane presenze, quasi fantasmatiche.

Oltre a un giovane giapponese, che si è rifugiato al cinema per sfuggire dal temporale esterno, in rilievo troviamo le figure della bigliettaia zoppa – Chen Shiang-chyi – e del proiezionista – interpretato da Lee Kang-sheng, volto di tutti i film del regista. Fra gli altri pochi e non chiaramente identificabili personaggi, spiccano le figure degli attori Shih Chun e Miao Tien, protagonisti del film proiettato in sala, e interpreti di loro stessi.

Rari sono i veri incontri, in una quasi totale assenza di dialogo.

Le uniche parole che risuonano chiaramente sono quelle del film “Dragon Inn”.

Riflessioni oltre la trama

In questo fluire d’immagini, in cui, come tipico per il regista, non c’è una reale narrazione lineare, lo spettatore è portato a fissare lo sguardo nel cinema all’interno del film. Parte di quella sala praticamente deserta, siamo così anche noi, fantasmi alla ricerca di un qualche contatto umano, mai davvero raggiunto. Quasi forzati dal lento scorrere del film, a riflettere sulla stessa esperienza della nostra visione, cerchiamo un senso nelle immagini, un senso che realmente non c’è.

Almeno, nel tessuto prettamente narrativo del film.

Nell’assenza di trama, ciò che davvero conta, è il pensiero oltre l’immagine.

Ha ancora significato la pratica cinematografica? In un contesto multimediale, in cui domina lo streaming, con la conseguente esperienza solitaria e individuale, essere catapultati in una sala, spettatori del nostro stesso sguardo, conduce a una visione quasi terapeutica.

La cinematografia di Tsai Ming-liang, unica nel suo genere, porta al risveglio delle nostre coscienze, spesso assopite nel flusso della quotidianità.

Sonorità liquide

Mentre la visione scorre verso un finale, come tipico del regista aperto ad interpretazioni, e il nostro occhio segue il vagare dei personaggi all’interno, il nostro orecchio è frequentemente riportato verso l’esterno. La pioggia è una costante dei film di Tsai Ming-liang, e l’acqua viene spesso rievocata nelle sue diverse accezioni, nell’atto del bere dei protagonisti, nella presenza di secchi, toilette e anche urinatoi.

Protagonista di rilievo, nel suo fluire continuo, fornisce all’insieme quasi onirico, un aspetto più realistico, risvegliando i nostri sensi. Si crea dunque un collegamento persistente fra l’interno della sala e il mondo esterno, e in questo legame sensoriale viene formato un contatto diretto col mondo dello spettatore. Alla fine echeggia un canto, popolare negli anni ’60 a Taiwan e familiare all’infanzia del regista.

“Sotto la luna, davanti ai fiori, non posso lasciarlo andare” – così canta Yao Lee nella canzone “Can’t let Go”. La vita scorre come la pioggia, e l’esistenza del film diventa anche la nostra.

Tornare in una sala, realmente e simbolicamente, in special modo dopo la pandemia, mostra l’importanza della stessa arte cinematografica, che, nella sua essenza più pura di specchio sull’esistenza, travalica le epoche, ed è impossibile da abbandonare.

a cura di
Matteo Sisti

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Matteo Sisti

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