“La custodia dei cieli profondi”, Riba trova il coraggio di toccare l’assenza comune

“La custodia dei cieli profondi”, Riba trova il coraggio di toccare l’assenza comune
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Aprendo la seconda di copertina, quella banda laterale che usiamo spesso come segnalibro, si legge “Cascina Odessa è il satellite periferico di un Pianeta che naviga placido ai margini della Via Lattea“. La custodia dei cieli profondi sembra trafiggere con forza quella tela che separa la nostra terra dal cielo lontano. Sappiamo che si trova nel nostro Universo, come un romanzo di fantascienza, e si àncora forte alle radici di un bosco. Il romanzo non è la tela, l’opera d’arte, ma lo strumento con cui Fontana realizza quei tagli studiati minuziosamente.

Raffaele Riba, autore del romanzo pubblicato dalla 66thand2nd, apre l’incontro con il lettore con una dedica che rimanda a quel cinismo cioraniano che riconosco in certi casi.

La custodia dei cieli profondi, Raffaele Riba. Dedica di apertura. Foto di Ylenia Del Giudice
La custodia dei cieli profondi: la cornice dello strumento è essenziale

Quando si racconta un’opera d’arte è importante partire dalla cornice, la parte più esterna che trattiene l’opera ma che può anche esaltarne alcuni aspetti. La custodia dei cieli profondi ha una cornice bianca come il latte, leggermente porosa, una Old mill della Fedrigoni. Silvana Amato si è occupata del progetto grafico sperimentando su questa carta la collusione fra i disegni tratti da Lectures on astronomical theories di John Harris, del 1876, il logo della casa editrice e il nome dell’autore.

Sono state inserite citazioni in rosso come fossero appunti scritti da una vecchia Olivetti con le testine prive di manutenzione. Quel genere di manutenzione che avrebbe impedito agli argini delle lettere di riempirsi di inchiostro fino a risultare illeggibili.

La custodia dei cieli profondi, Raffaele Riba. Copertina del libro. Foto di Ylenia Del Giudice

Non c’è nulla che ci permetta di riconoscere qualcosa di noi in questo primo approccio. Nemmeno il blu dell’inchiostro sulla carta Bioprima della Fabriano utilizzata per l’interno. Un romanzo che elimina il concetto di confine pur raccontando di un’implosione che supera il limite di quegli argini interni.

La custodia dei cieli profondi: la storia

Quando si parla della storia de La custodia dei cieli profondi si parla della vita di Gabriele, del suo resistere ed esistere ad una casa che si sfalda come pelle secca, con lei la famiglia e parte della sua identità. Si parla di una storia che non vorremmo vivere ma dalla quale ci sentiamo attratti. I cieli di Riba sono il buco nero dove ci affacciamo per entrare nella nostra dimensione interiore.

La stessa dalla quale scappiamo abitualmente perché in Italia siamo navigatori, ma di mari altrui.

Ci immergiamo in un romanzo dove forse è nascosto un memoire dei sensi, che rimanda chiaramente ai colori e all’atmosfera del von Trier di Melancholia. Raffaele Riba ricrea quel sentimento che conosciamo già, il bisogno che abbiamo di legarci alle cose anche quelle rotte, quelle ammuffite che abbiamo inglobato, cellule annesse senza le quali non sappiamo più chi siamo.

Odessa, il setter irlandese di mio nonno, camminava sempre due o tre passi davanti a lui, mai di più. Era un cane diligente e aveva un olfatto delicato. Cadde lei per prima, mio nonno nell’istante successivo. L’abbaio diventa guaito e poi si strozza perché il corpo di mio nonno cade sopra il suo. Tutto nello spazio di un secondo. […]
La bacia sulla nuca, la pettina come fosse una bambina, e solo quando decide di lasciarla pensa a come fare per uscire. Scala il terreno e con qualche pugno fa crollare altro soffitto, la terra, le radici, mangiando polvere e cominciando a ricoprire il corpo per il quale questa casa sarebbe stata il tumulo abitato e folle che ho protetto come ho potuto.

Questo è il posto sopra cui vivo.

Una storia di vita che inizia con la morte, con la costruzione di una casa, Cascina Odessa, su un terreno brulicante di muffe e calliphore.

La custodia dei cieli profondi: oltre al colore, la cura

Melancholia torna alla mente non solo per i colori. Quel senso di fine incurabile, che emerge dalle parole scelte con cura meticolosa da Riba, e quella descrizione sulle fondamenta di Cascina Odessa spingono il lettore verso una sola direzione possibile: quella di alzare gli occhi al cielo e di vivere osservandone il decadimento.

Osservare Melancholia che si avvicina alla Terra come Gabriele osserva il decadimento di Cascina Odessa. Immagine da internet

Ancora, si può pensare a Melancholia perché Giacomo diventa il custode dei cieli profondi di tutta la famiglia e del luogo stesso chiamato casa, come Claire: portatori sani delle depressioni degli altri. Giacomo accoglierà tutto il dolore, come gli insegna la sua esistenza di fratello, come farebbe un figlio, dimenticandosi del proprio Io per sostenere e trascinare quello degli altri.

Perché di trascinare si tratta; Riba traina il lettore che diventa ammalato e curante proprio come Giacomo.

Quando gli ultimi libri toccano il fondo, cominciano a salire volute di acqua nera, inchiostro senza più lettere né senso che all’inizio è filiforme come il fumo di una sigaretta, poi sempre più ampio e slabbrato, finché la corrente superficiale non lo mescola e lo schiarisce; e lo porta via, fuori dallo scantinato, fuori da Cascina Odessa, lungo tortuose anse che lo consegneranno allo Stura e dopo al Tanaro, attraversando le Langhe e il Roero e poi, poco prima del confine con la Lombardia, al Po, e da lì fino al mare, disciolto nella memoria dell’acqua come formule omeopatiche che curano l’oblio con la dispersione.

A mio fratello il sapere, a me la cura.

Le immagini accompagnano l’assenza che trabocca. Tante parole a riempire pagine che raccontano di anime e di luoghi in decadenza seppelliti dal peso che manca. La casa diventa specchio di abbandono e doveri, Giacomo senza Cascina Odessa sente di non essere più nulla.

La custodia dei cieli profondi: l’interminabilità

Riba si porta dietro un carico notevole e solca, con i pensieri, un terreno a tratti fangoso, a tratti arido e polveroso, riuscendo a guidare il lettore senza permettere mai che si perda. Una pagina al giorno, un passo al giorno, non importa: al nostro ritorno sarà lì ad aspettare, come Giacomo. Su questo modus vivendi avviene la cura dell’anima, come fosse un percorso terapeutico davanti allo specchio. Per ogni esperienza maturiamo consapevolezze maggiori.

Accelerare il decadimento di Cascina Odessa è la cosa più dolorosa che abbia mai fatto. Di questo, certo, Emanuele non saprà mai nulla. Vedrà le cose, quelle che rimarranno, e non capirà.

Arriviamo a comprendere il bisogno di eutanasia, di staccare la spina al dolore che siamo stati chiamati a portare. Riba ci insegna, così come a suo tempo fece Romagnoli in Solo bagaglio a mano, che dobbiamo portare sulle spalle solo ciò che ci serve davvero, solo pesi che non siano fardelli per noi e per il nostro viaggio. Emanuele, il fratello, non si accorgerà di nulla perché non ha interesse. Oppure ha scelto di salvare se stesso.

Impossibile provare empatia per un solo personaggio durante tutta la lettura. Basta un elemento in più a far cambiare improvvisamente la direzione del dito puntato sul colpevole. Colpa dei genitori, della vicina, del fratello, di Giacomo. Nostra.

a cura di
Ylenia Del Giudice

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Ylenia Del Giudice

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