Le moltitudini di IRA, l’ultimo album di Iosonouncane: la recensione
IRA è l’ultimo album di Iosonouncane, pseudonimo di Jacopo Incani, e non è un lavoro facile. Bisogna ascoltarlo, riascoltarlo e riascoltarlo ancora, e forse una volta di più per cogliere le moltitudini che contiene. E probabilmente, a quel punto, risulterà ancora difficile. Ma è anche, indubbiamente, bellissimo. Il punto, se un punto si vuole trovare, è che non occorre capire pienamente qualcosa per apprezzarla.
Forse sarebbe stato sufficiente soffermarsi qualche attimo in più sulla copertina: un’immagine sfocata di un uomo nudo, con i confini che sembrano sparire nel buio. IRA, proprio come questa foto, è un album rarefatto, con suoni sperimentali e un’infinità di stratificazioni. I brani sono lunghi, in alcuni casi anche una decina di minuti, ma una volta cliccato il tasto play quei suoni rimangono appiccicati alle orecchie.
La scelta di Iosonouncane
La scelta di Iosonouncane è evidente: realizzare un album che si ponesse agli antipodi di tutto quello che sta succedendo nel mondo della Musica, per durata, struttura e anche lingua. Quest’ultima è infatti frammentata, completamente reinventata: a volte il cantato è in inglese, altre in spagnolo o francese, addirittura in arabo. Quello che sembra dirci è che le parole non possono esprimere quello che vogliamo veramente dire. Il senso di confusione e disorientamento è il tratto comune a tutti noi.
La voce non è l’elemento principale, e anzi si perde tra gli strumenti. IRA è uno scrigno che contiene tanti elementi diversi, e la verità è che da tempo mancava un’opera che desse vita alla quantità di dibattiti che ha creato, a partire dalla sua uscita.
Le influenze mediorientali
Le percussioni fanno pensare al tribalismo e, come ha dichiarato l’artista, alla musica del Magreb. Le influenze mediorientali sono evidenti soprattutto in brani come Foule, Jabal e soprattutto Hajar, che fa pensare alle danze ossessive dei dervisci.
Il deserto è uno degli elementi maggiormente presenti in IRA: il vento soffia sulle dune e si porta via le speranze di chi sognava una strada diversa nel cantautorato italiano per l’arista sardo. D’altra parte, chi pensa che possa aprire la strada a una nuova stagione musicale forse si sta sbagliando. La sensazione è che IRA sarà, più probabilmente, un caso isolato. Jacopo Incani probabilmente continuerà a fare musica così, oppure no e un’astronave tornerà a riprenderlo. Difficile quindi credere che possa essere il faro che guiderà altri artisti verso la sperimentazione.
Se parlarne in toni entusiastici può sembrare ingenuo, demolirlo è ridicolo. È un disco lungo, molto lungo, forse troppo, di certo una sfida in questi tempi di ascolti “mordi e fuggi”. Lo è soprattutto perché – per come è stato concepito – suggerisce di essere ascoltato tutto insieme, come un’opera. Al termine dell’ultima traccia ci si sente straniti, perduti. Segno che il disco funziona. IRA è un lavoro di quelli che da anni non si sentivano in Italia, se mai se ne sono sentiti.
a cura di
Daniela Fabbri