BO-LOVE: le Altre di B e la scena HCBO delle origini

BO-LOVE: le Altre di B e la scena HCBO delle origini
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La scena bolognese delle origini, tra skaters, home recording e tutta la fotta dei regaz. Le Altre di B raccontano la Bologna hardcore dei primi anni Duemila.

Freschi della pubblicazione di “Lungomare” che vede il featuring con Lo Stato Sociale e del terzo doppio singolo “9-5er / Mommy” uscito lo scorso 13 aprile via Costello’s Records e We Were Never Being Boring, le Altre di B sono pronte a presentare il nuovo disco SDENG, in uscita venerdì 14 maggio.

In attesa di ascoltare il nuovo album della band, gli abbiamo chiesto di raccontarci a modo loro la Bologna hardcore dei primi anni Duemila. D’altronde chi meglio di loro, attivi sulla scena da 15 anni, poteva spiegarcela? Un racconto sui generis che comprende anche scatti d’epoca, un’intervista delle Altre di B ai Forty Winks e una sorpresa finale in esclusiva per The Soundcheck.

Mentre leggete il tutto, godetevi la soundtrack giusta con questa playlist creata ad hoc dalla band felsinea:

Simone è piccolo di statura, con le braccia muscolose e tatuate e la faccia da ragazzino, nonostante abbia qualche anno più di noi e una bellissima famiglia. Oggi è il nostro tatuatore di fiducia e un bravissimo fotografo, oltre che customizzatore di auto d’epoca, disegnatore, trombettista e mille altre cose verso le quali lo porta il suo inestinguibile estro creativo.

Quando lo abbiamo conosciuto, però, era l’anima di fil di ferro di diversi gruppi della scena hardcore bolognese, che suonavano insieme, si contendevano i musicisti, cambiavano nome e formazione di continuo. Al tempo noi, che eravamo al liceo insieme, spesso passavamo i pomeriggi a guardare gli skater sul cemento grattugia dei parchi della città, visto che eravamo troppo goffi per imitarli sulla tavola.

HCBO – HardCore Bologna

La comunità di skaters di Bologna nei primi anni Duemila era ampia, mutevole e disomogenea. ma molti facevano riferimento a quel mondo semisommerso di ascolti musicali d’oltreoceano e concerti nei centri sociali, alle feste dei licei e nei locali più punk della città. Era HCBO, HardCore Bologna, un movimento che non ha mai avuto nessun interesse a farsi catalogare perché, come spiegato molto bene qui, a nessuno di quelli che lo componevano interessava altro se non fare quello che volevano, che veramente gli piaceva esserci.

Molti facevano riferimento a quel mondo semisommerso di ascolti musicali d’oltreoceano e concerti nei centri sociali, alle feste dei licei e nei locali più punk della città. Era HCBO, HardCore Bologna, un movimento che non ha mai avuto nessun interesse a farsi catalogare perché, come spiegato molto bene qui, a nessuno di quelli che lo componevano interessava altro se non fare quello che volevano, che veramente gli piaceva esserci.

Gli insegnamenti di HCBO: numero uno

Questa è la prima cosa che ci ha insegnato quella scena: che non importa arrivare, non importa vendere o apparire, non serve andare in tv o in radio, né essere amici di quelli che contano, o entrare nel giro giusto; conta solo esserci, suonare per suonare, per la comunione di intenti che si crea sopra, sotto e intorno a un palco. E nel frattempo fare più casino possibile.

altre di b

I nomi erano strani e per noi molto evocativi: Hilldale, Levin, The Milkshaker Corporation, Linterno. Era un altro campionato rispetto al nostro: parlavano di registrazioni in casa, di concerti hardcore dentro agli snowpark in Trentino, moddavano le chitarre e suonavano velocissimi. Erano i nostri idoli. E anche dopo, quando li abbiamo conosciuti e siamo diventati amici, non si è persa quella sensazione di stima.

Per questo, quando Simone ci ha proposto di registrare i nostri primi pezzi nel garage di Santiago, che allora era il suo batterista, non abbiamo esitato a dire di sì. E questo nonostante ogni tanto dovessimo interrompere le registrazioni perché il papà di Santiago, che si era tenuto un angolo del garage come suo santuario personale, si presentava coperto solo da un asciugamano intorno ai fianchi per farsi un rilassante bagno turco nel box di legno che si era costruito da sé.

Gli insegnamenti di HCBO: numero due

Simone era un fonico autodidatta e improvvisato, e i mezzi a disposizione 15 anni fa erano molto diversi da certi home studio che si possono ottenere oggi. Ma i pezzi suonavano, le parti erano quelle giuste e alle nostre orecchie inesperte quei pezzi spaccavano. Ma soprattutto erano nostri, li avevamo fatti noi dall’inizio alla fine, insieme ai nostri amici.

altre di b

E questa è la seconda cosa che ci ha insegnato la scena hardcore di Bologna dei primi anni Duemila. Noi eravamo al liceo, e le chitarre secche e sferzanti dei primi Arctic Monkeys ci avevano folgorato solo poco tempo prima, spingendoci a suonare insieme. Non avevamo idea di come sarebbero andate le cose, e avevamo a malapena idea di come si imbracciassero i nostri strumenti.

Ma sapevamo che volevamo farlo a tutti i costi, e sapevamo di volerlo fare con le persone a noi vicine, affini, amiche. Per questo motivo Simone, che per un breve periodo è stato anche il nostro tastierista, ancora oggi ci dipinge sulla pelle. È lo stesso motivo per cui abbiamo suonato per anni nelle sale prova dove lavorava Fabio, che suonava nei Milkshaker Corporation (e un po’ in tutti i gruppi menzionati prima). E Claudio e Lorenzo, compagni di palco con i Linterno, sono stati i nostri primi videomaker e grafici.

Per questo motivo abbiamo dedicato due brani di questo album in arrivo a Vittorio degli Obagevi e a Paolo dei My Awesome Mixtape: il primo perché suonava nel miglior gruppo mai uscito da Bologna e perché ha condiviso i palchi con noi come quinto altre di B per cinque anni; il secondo perché ha sempre fatto la musica che vorremmo fare noi, e perché oggi è il panettiere che ci coccola con le incredibili produzioni del suo forno.

Gli insegnamenti di HCBO: numero tre

Imparando dai NOFX e dagli altri guru del DIY nel punk, abbiamo sempre fatto più le cose nostre che le cose belle. Perché tutti sono capaci di fare le cose belle, quello veramente difficile è fare le cose che ti piacciono.

altre di b

Il Manuale di lingua e mitologia urbana definisce il termine fotta come “un sentimento prepotente e irrazionale, un mix tra rabbia, convinzione dei propri mezzi e forza d’animo”. È la benedizione dei piccoli che non vogliono diventare grandi, ma spaccare il culo insieme a tutti i piccoli del mondo.

È rivoluzione proletaria, amore universale, voglia di rivalsa. È un sanpietrino tra gli occhi di chi non ti capisce e per questo ti ostacola o, peggio, ti ignora, mentre tutto quello che hai sempre voluto è prendere la rincorsa e poi decollare, mano nella mano con chi ti è vicino. Questa, forse, è la terza cosa – la più importante – che ci ha insegnato la Bologna hardcore degli anni Duemila. Una scuola di vita che una sera ci ha portati sotto il palco del Covo Club di viale Zagabria, uno dei luoghi più significativi della nostra vita.

È un sanpietrino tra gli occhi di chi non ti capisce e per questo ti ostacola o, peggio, ti ignora, mentre tutto quello che hai sempre voluto è prendere la rincorsa e poi decollare, mano nella mano con chi ti è vicino. Questa, forse, è la terza cosa – e la più importante – che ci ha insegnato la Bologna hardcore degli anni Duemila. Una scuola di vita che una sera ci ha portati sotto il palco del Covo Club di viale Zagabria, uno dei luoghi più significativi della nostra vita.

L’intervista

Davanti a noi, a un metro da terra i Forty Winks, i responsabili di tutto ciò che abbiamo fatto in seguito come band: dal modo di vestire, al modo di scrivere. Dal modo di concepire questo mestiere, all’attitudine. Come si evince da questa chiacchierata con loro.

forty winks
Quale artista, disco o evento, se non ci fosse stato, non avrebbe portato i Forty Winks a essere i Forty Winks?

I primi riferimenti che mi vengono in mente sono i festival che passavano per Bolo periodo 95/96, con line up punk hardcore (Nofx, Raw power, Madball, Lagwagon, SOIA, ecc.), teste vuote, ossa rotte credo? Negli stessi anni al covo suonavano UK Subs, Descendents, Dickies. È giù di lì che ricordo sia scattato un certo senso di appartenenza alla scena: e la molla di formare una band. Passati rapidamente da grunge-fricchettoni a bulbi colorati e tatuaggi traditional (molto prima che diventassero roba da tronisti…) nel giro di qualche mese eravamo fissi in sala prove, infottati duri, o ai gardens a skateare, fattissimi di gran lainz.

Frequenze radio, negozi di dischi e aggregazione. Qual era il clima culturale di vent’anni fa in città e nel Paese?

Sicuramente non essendo ancora esploso l’internet (magari esplodesse veramente) la gente usciva. Se volevi ascoltare la musica che ti piaceva dovevi sbatterti, frequentare negozi tipo Disco d’oro o Underground, ma soprattutto andare a un botto di concerti. Band davvero di ogni, l’impressione è che ci fosse sempre qualcosa da vedere, e il più delle volte da scoprire. E le balotte gira e rigira erano le stesse, ci si incrociava, ci si squadrava da lontano con diffidenza o stima in base al nome della band che avevi stampato sulla maglietta.

Si organizzavano date insieme a gruppi amici, ci si ospitava nelle rispettive città, si suonava in piccoli club, nei centri sociali, vez ce ne sarebbero di gag da raccontare. Pensa che la passione di Robbi, ormai desueta, era andare in giro per Bolo a fare attacchinaggio bresco marcio. Oltre al passaparola i manifesti sui muri erano l’unico modo per far sapere in giro del tuo prossimo concerto.

C’è un momento spartiacque nel quale hai percepito che le cose a Bologna sono mutate sul piano sociale, culturale e artistico?

Ricordo intorno al ’98/’99 che c’era parecchio fermento in città, un botto di posti dove fare e ascoltare musica (Covo Club, Sottotetto), contaminazione con il mondo hip hop e skate (Livello57, Link) in quel contesto abbiamo mosso i primi passi e non sapevamo bene cosa aspettarci. Poi fino al 2007 circa abbiamo suonato senza sosta, a casa nostra e fuori, e a Bolo il clima era positivo e direi piuttosto spensierato, un sacco di band di amici molto valide con cui condividere serate.

Credo che Bolo si sia incupita poco dopo, se non ricordo male, con la chiusura di alcuni spazi, restrizioni su decibel nei live… Ricordo un generale disinteresse per la musica suonata e i concerti, non saprei se fosse più mia percezione o realtà dei fatti, sai ho la memoria bruciata dalle droghe…

Fate parte di una scena probabilmente irripetibile. Quanto è contata l’interazione, la collaborazione e la rete fra band, in Italia e all’estero?

Parlando sempre di vent’anni fa quello che dici tu è stato fondamentale per noi e penso per tutti in quel periodo, quello che contava era il far girare il nome coi mezzi che si avevano, con le magliette, gli adesivi sui pali e ai caselli, facendo tanti live e andando in tour all’estero. Il live di una band era la cosa che ti doveva rimanere più impressa, per cui la gente poi avrebbe comprato il disco, o la maglietta e sarebbe andata in giro a dire che eri un ganzo. Le band di amici e il network che ti creavi pezzo dopo pezzo ti permettevano di suonare un po’ dappertutto. Non solo i gruppi ma anche i promoter carichissimi, appassionati veri, che tiravano su concerti e li promuovevano spesso senza mettersi in tasca una lira: bastava sentirsi parte attiva della scena. Ognuno aveva il suo ruolo e tutto girava, anche se non girava un ghello. Abbiamo fatto tour uno dietro l’altro in posti che difficilmente avremmo visitato altrimenti. Se ci ripenso non so davvero come fosse possibile, senza gli strumenti di oggi. Con la fotta, credo.

Quanto conta l’etica DIY in ambito musicale?

Per noi è fondamentale. Prima dei talent show (demmerda) era praticamente l’unico modo per costruire qualcosa. E nei primi 2000 era ce ne voleva di impegno e sacrifici per organizzarsi dei tour, o registrare un disco. Al tempo DIY significava telefonate per chiudere date, demo spediti alle etichette via posta, merch autoprodotto, fanzine ritagliate alla buona. Solo se eri davvero motivato e pronto a investire energie e tempo nella musica riuscivi ad andare da qualche parte. Ora credo sia cambiato tutto, chiunque può registrare velocemente qualcosa e con ottima qualità audio, e per farla girare le opzioni sono molteplici e a portata di mano.

Pensi abbiate fatto scuola?

Non lo so, però è bello che la gente si ricordi dei live, dei dischi, dei festini post concerto ed è felice. C’è addirittura chi per salire sul palco con la sua band indossa sempre la stessa maglietta dei Forty Winks da dieci anni… vero Altre di B? Ad ogni modo, scuola o no, rifarei tutto, sicuro.

Qual è l’album più significativo dei FW?

L’omonimo (s/t 2005) è quello che ha segnato il primo cambio di suono, da punk di stampo californiano da sbarbi a un mix di diverse influenze, più personale. Ci sono dei pezzati che suonano ancora abbastanza attuali, e che per qualche regaz (pochi eh) in giro per il mondo significano qualcosa, il che rappresenta direi la soddisfazione più grande per noi. Bow Wow è il disco più maturo, pieno di influenze e idee diverse, secondo me qualitativamente superiore e più “senza tempo” di s/t.

Quanto quest’esperienza ha influenzato tutto quello che hai intrapreso nella vita?

Sicuramente tutto. Io per esempio se non avessi conosciuto gli altri non avrei mai iniziato a suonare uno strumento, non avrei mai mollato il lavoro comodo e remunerativo per andare a suonare all’estero. Non sarei mai stato in posti in culo al mondo perché non ci avrei mai pensato o non avrei mai avuto il tempo o la possibilità, non avrei mai conosciuto tanti amici, gente strana, fatto dei salti con l’asta (non traduco), collaborato in altri progetti con musicisti che apprezzo tantissimo e non avrei mai preso una condanna da sei mesi di reclusione che per fortuna si è risolta bene…


Altre di B – Meet you at the bar (Forty Winks acoustic cover)

a cura di
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