Ovvero, come meccanismi di adattamento diventano bias che ad alcuni iniziano a far comodo
Abbiamo davvero voglia di tornare alla “normalità”? Molti di noi sì, disperatamente. Ma, in futuro, quando questa pandemia sarà domata e debellata, avremo davvero voglia di tornare alla “normalità”? Molti di voi diranno “Ho già risposto, ovvio che ho voglia”.
C’è una sottile differenza. Molto importante, a dir la verità. Ora, in tempi di pandemia, di costrizione a uscire il meno possibile causa forze maggiori, di chiusure forzate, di vuoto cosmico dopo le 22:00, amplifica in maniera drammatica la nostra voglia di tornare a passeggiare, a riempire i locali, a ruttare un “Ti voglio bene, pezzo di melma” verso il grugno degli amici.
C’è una parte di popolazione, tuttavia, che si è adattata a questa situazione che stiamo vivendo da oltre un anno. Da una certa prospettiva ciò è funzionale, è un modo per continuare a sopravvivere. È l’attuazione pragmatica del vecchio adagio “Di necessità, virtù”.
Ma cosa succede se questo adattamento diventa parte pulsante in noi? Questo dare per scontato di non potere andare al bar per un caffè, di non poter incontrare gli amici al pub, di avere timore di far visita a parenti e dire “Dai, meglio una videochiamata, almeno ci vediamo lo stesso” non è più adattamento, ma consuetudine.

Voler tornare fuori…
… ma con la paura di rimanere fuori. Durante questo anno abbondante di pandemia, di emergenza sanitaria che è diventata quotidianità sanitaria, molti hanno rivisto le proprie abitudini, tanti hanno cambiato le proprie routine, alcuni le hanno fatte diventare la propria coperta di Linus durante questi mesi.
Proprio come il personaggio dei Peanuts, ci siamo in qualche modo affezionati a certe meccaniche, certi meccanismi (pratici e mentali) che oramai sono diventati automatici, sono parte di noi stessi, a prescindere se siano funzionali o meno, inutili o ancora con un senso d’esistere.
“Voi andate, magari vi raggiungo dopo”
In questa pandemia alcuni nuovi elementi che abbiamo introdotto in noi e nelle nostre routine sono diventati non un’ancora di salvezza, ma comfort zone. Il che, in qualche modo, è peggio.
Ti aggrappi all’ancora di salvezza in momenti di pericolo, quando hai bisogno di sostegno o di una via di fuga.
La comfort zone, invece, ti fa sentire protetto; nella comfort zone ti raggomitoli come un gatto sul calorifero. Può esserci un diluvio, può esserci una bella compagnia: a prescindere dalla situazione, sai che c’è e pian piano fatichi sempre più a comprendere perché mai dovresti abbandonarla.

Il mondo prima
Sì, sarà bello cenare di nuovo al pub di fiducia. Però meglio prenotare un posto fuori, magari coi tavoli ben distanziati. Magari senza nemmeno fare tardi per forza.
Sì, sarà bello tornare al cinema per godersi un film su uno schermo da millemila pollici, spaparanzati sulla poltrona e con l’inebriante odore dei popcorn attorno… Però… Dopotutto non era così male godersi la trilogia de I Mercenari in salotto, rutto libero e senza qualche maledetto ragazzino che biascica e parla per tutto il tempo (che belli gli ossimori della vita).
Sarà bellissimo tornare ad assistere a un concerto e godere come un porco. In zona mixer, che tra l’altro si sente meglio e si vede decentemente. Oppure in piccionaia, dove di solito ci sono più posti vuoti. l’importante è essere lì, no?

“Questi sono bias, non va bene” “Lo so, ma amen”
È questa l’altra realtà che si prospetta. Non è catastrofismo, ma semplice constatazione: c’è chi disperatamente vuole tornare a una realtà il più simile possibile a quella pre-Covid19; e c’è chi vorrebbe, ma si sta abituando a routine al momento funzionali e che potrebbero andare a sostituirsi a quelle che, a conti fatti, stanno diventando pian piano “speranze di facciata”.
Da una parte chi davvero non vede l’ora di tornare a vivere, dall’altra chi sta già vivendo e dovrà di malavoglia adattarsi a quel “ritorno alla normalità”.
Paradossale, ma reale.
a cura di
Andrea Mariano