Gli Affreschi di Quartiere di Daniele Pozzi
Scrittore, pittore e romano DOC: Daniele Pozzi, dopo il romanzo Omar dei Corvi, e una serie di progetti legati alla pittura, ritorna con il suo nuovo libro Affreschi di Quartiere.
Abbiamo avuto il piacere di parlarne con lui, toccando anche argomenti come l’arte visiva, la “Banda della Magliana”, la società preistorica e molto altro.
Buongiorno Daniele, come prima domanda, diciamo da antipasto, volevo chiederti: cosa ti ha portato a scrivere Affreschi di Quartiere? Qual è stato il tuo percorso?
Affreschi di quartiere è nato dalla voglia di divertirsi divertendo e di far pensare allo stesso tempo. Dopo tante tristezze, ho puntato a questo doppio effetto. Parlare di quando eravamo “costretti” a essere vicini, accorpati. Unici ma come sottoinsiemi a confronto, tutti uniti nell’intento di ritagliarci una vita migliore. Quel bisogno di essere umani, oggi, andrebbe recuperato in modo consapevole.
Non parlo di nostalgia, piuttosto metto in luce le mancanze di quel mondo dove, però, erano forti i lampi d’umanità.
Non c’è stato volutamente alcun percorso predefinito. Affreschi è scanzonato, un libro da commedia all’italiana; esilarante a tratti, con una riflessione amara che monta lenta negli occhi di chi legge. Cercare quell’umanità che in borgata era necessità, in un ambiente da edilizia popolare, immigrazione regionale, delinquenza, e che oggi potrebbe ricreare consapevolezza di ciò che manca.
Il messaggio è sempre lo stesso anche in Omar dei Corvi, l’urgenza di cambiamento.
Mentre in quest’ultimo si delinea una rinascita come unica scelta dinanzi alla fine, in Affreschi si auspica più gentilmente come rifondazione attraverso il recupero delle emozioni, degli incanti e delle magie vissute dai bambini di allora.
Il libro racconta di vari aneddoti di vita che si svolgono in un quartiere romano tra gli anni ’70 e ’80; luogo e periodo coincidono con le tristi vicende della Banda della Magliana.
I fatti di cronaca del tempo, tra violenze e rapine, hanno influito sul libro?
Noi non sapevamo ci fosse una Banda della Magliana, vivevamo la nostra quotidianità di bambini in un quartiere che non offriva niente, se non quel brutto e quel bello della sua traboccante umanità. Ogni cortile era un mondo a sé con propri equilibri, in cui il gruppo evitava quella fragilità di un essere fuori dal branco. Quella che sentivamo di più era la microcriminalità, la delinquenza spicciola, piuttosto che l’efferatezza da Banda della Magliana, che spesso non operava dov’era nata.
Quelli che fermo in questa raccolta sono i fotogrammi del quotidiano, gli spaccati del vissuto visti con gli occhi dei più piccoli.
Ogni bambino per la strada all’epoca era sempre con altri, inventando giochi, racimolando piccole ricchezze senza valore, pattugliando in bici, fuggendo a piedi, e ridendo di un mondo che, comunque, per quanto brutto e desertico, gli appariva come uno dei migliori possibili.
Voglio dire che si stava ben piantati sul presente e il futuro era solo domani. Per noi ogni piccola lucciola rischiarava una notte intera.
Poi da grandi abbiamo saputo che quello che avveniva lì, che per noi era l’equilibrio tra misfatto e bisogno, per gli altri invece aveva preso la faccia della criminalità organizzata che, partendo dal nostro quartiere, aveva infettato tutta Roma e non solo.
Perchè hai deciso di non seguire un filo cronologico ma dettato dal sentimento? Cosa ti ha spinto verso questo tipo di narrazione?
Volevo che i racconti di Affreschi di Quartiere fossero come chiazze di vernice colorata su muri bianchi, volevo fossero come quei racconti o spigolature che si raccontano a cena, al bar tra amici dopo il calcetto, magari, e questi non hanno mai un filo cronologico, un binario.
Le barzellette nascono immediate, per chi se le ricorda e chi le sa raccontare, e sono bagliori di ilarità come questi racconti di borgata, ma non solo.
Ho voluto che avessero questo taglio, macchie di ricordi sparate giù dal cannone di mezzogiorno, a far rammentare questo o quel gioco, quelle auto, quelle sensazioni, quei tipi di comportamenti, quei proverbi, la cronaca, tutto riportato nelle vivide pupille delle persone che hanno vissuto realmente in quel mondo.
Senti un cambiamento nella tua prosa da Omar dei Corvi ad adesso?
La pittura ha inciso su Affreschi di quartiere?
Il cambiamento nasce dal progetto più che dalla prosa, dalle fondamenta.
Omar dei Corvi è figlio di questo approccio che è diventato un mio stile. È un viaggio che inizia da lontano, dall’anima di bambino del protagonista per costruirsi come uomo nuovo, purificandosi.
Nel testo c’è un linguaggio accurato, misto a una sorta di sali-scendi voluto e si rivolge alle verità dell’anima.
C’è in questo romanzo la responsabilità etica. Una costruzione che si distacca dal bisogno di scrivere, o dalla necessità di autodeterminarsi come io scrivente. Un passaggio a una terza fase dello scrivere, quando affidi all’inchiostro di macchiare la carta con i segni della tua anima.
Diverso invece il passo di Affreschi di Quartiere, che definisco una produzione pittorica su carta.
Stesso messaggio di recupero della bellezza dell’umanità, ma differente forma di espressione.
Con la pittura io ho un rapporto esplosivo, vulcanico che va oltre la semplice ispirazione momentanea o impulsiva.
Affreschi è stato come dipingere, è sgorgato spontaneo; in due mesi è nato questo piccolo ma denso progetto. Ci siamo divertiti, con la dott.ssa Bassetti che ringrazio, a realizzare dei videoracconti che sui social hanno avuto un ottimo riscontro. Amo entrambi questi miei modi fare arte. Mi appartengono, riescono a svuotare la mia anima prima che trabocchi.
Prospettiva terribile: da domani si ritorna ad una società preistorica. Con Tutte le ovvie difficoltà del caso, cosa credi faresti per sostituire la scrittura?
Io credo che l’uomo sia capace di alzarsi quando è necessario e misurare la propria altezza o bassezza proprio nelle circostanze più critiche.
Siamo nell’Antropocene. Tutte le nostre azioni hanno rilevanza, anche quelle più banali e ovvie come gettare una bottiglia; non possiamo più nasconderci riducendo le responsabilità a un voto. Oggi non basta più, siamo in guerra perenne contro noi stessi, contro vecchi comportamenti inadeguati.
Abbiamo l’obbligo di allargare l’intorno del nostro Ego-sistema agli aspetti ormai imprescindibili, come l’ambiente, l’altro, la comunità e la comunicazione.
Dobbiamo assumere il senso etico di ciò che diciamo o scriviamo, ridefinire le propensioni egotiche di ciascuno e assumere una coscienza collettiva di impegno responsabile. Occorre verità a tutti i livelli.
Speranza e recupero, rinascita e coscienza di ciò che significa essere umani.
Per come li ho pensati Omar dei Corvi e Affreschi di quartiere non si leggono soltanto, si ascoltano, si percepiscono, le parole si toccano, alcune si sussurrano, altre si scandiscono o si gridano magari.
Comunicare, trasmettere e condividere è l’essenza stessa dell’uomo, il mezzo è mutaforma. Così io, come vedi, non farei granché per sostituire la scrittura, se tutti facessimo qualcosa per sostituire noi stessi e parlare con le nostre anime di uomini nuovi.
a cura di
Luca Pensa
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