Dead Railroad Line Chronicles: il viaggio di Ale Ponti

Dead Railroad Line Chronicles: il viaggio di Ale Ponti
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Prima di spiegare l’importanza di un disco come Dead Railroad Line Chronicles di Ale Ponti, uscito per Trulletto Records che ne ha curato anche la produzione, è giusto aggiungere qualcosa in più sulla forma di espressione musicale da lui utilizzata: il blues.

Il blues ha un linguaggio antico e arcaico sviluppatosi all’inizio del secolo scorso, da uomini di colore che vivevano situazioni di sfruttamento e disperazione, esasperati dalle leggi Jim Crow che ostacolavano in ogni modo l’uguaglianza e la parità di diritti fra bianchi e neri.

Ale Ponti ha suonato e vissuto fra New Orleans e Chicago affermando le sue abilità col finger picking chitarristico. Tra i momenti importanti della sua carriera ci sono: l’esibizione al Blues Festival di Chicago e i concerti di apertura avvenuti durante il tour italiano di Corey Harris.

Ponti ha scelto di mettere sé stesso nel blues, cantando storie diverse fra loro, parla di malattia, di drammi familiari e della volontà di reagire, nonostante tutto. La canzone che da il titolo all’album, narra la storia di Conny, donna nigeriana arrivata in Italia con i figli, cercando condizioni di vita migliori e che ha perso la vita in una stazione ferroviaria. Questa e altre storie, compongono un disco profondo, di rinascita e condivisione.

Ma lasciamo che sia lui a raccontarci qualcosa in più…

Possiamo dire che questo Dead Railroad Line Chronicles è l’inizio di un percorso di autore e musicista perfettamente inserito nel genere roots blues e ragtime?

Credo di sì. Il Blues e in generale la musica afroamericana dell’inizio del secolo scorso, sono le radici, il tronco e i rami della musica che ho ascoltato, amato e suonato da sempre o quasi. Dead Railroad Line Chronicles è il tentativo di tenerla viva, un nuovo abito sotto il quale batte lo stesso vecchio cuore.

Credi di aver raggiunto la preparazione tecnica e aver assorbito la grande carica umana che questo genere richiede?

Credo di suonare e cantare in maniera sufficiente per esprimere ciò che voglio esprimere, non me ne preoccupo più di tanto. Oltre un certo livello, la tecnica, nel Blues, rischia di mettere in ombra aspetti più profondi di questa musica meravigliosa. Tali aspetti sono anche i più difficili da padroneggiare. Non c’è un percorso, una mappa segnata. La recente esperienza nel tour con Corey Harris ha rafforzato questa mia convinzione.

Non credo esista un livello di esperienza umana oltre il quale si possa suonare o cantare il blues. Il blues è la parte visibile di un albero la cui radice è il modo in cui si è fatti, la forma di cui è fatta la nostra anima. Come recita un vecchio proverbio africano “Le radici non fanno ombra”. ma ci sono e crescono insieme all’albero. Suono e canto per ciò che sono e che divento giorno dopo giorno.

Hai dedicato il tuo primo disco Going back to New Orleans alla cittadina della Louisiana dove hai suonato e vissuto. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?

New Orleans è una splendida donna che suona un ragtime malinconico su un pianoforte scordato, in una casa di legno umido e colorato. Ti puoi sedere accanto a lei e provare a suonarci insieme, non importa quanto sei bravo, sorriderà e suonerà con te e farà in modo che sia splendido. Lo farà lei, non tu. Da quel momento in poi sentirai il diritto di suonare la musica di quelle terre. Poi chiuderà il pianoforte e se ne andrà nella parte povera della città, con un po’ di malinconia, con pochi dollari in tasca, con i suoi guai, ma pronta a tornare l’indomani.
Questo mi ha lasciato, non so dirlo in altro modo.

Il brano che da il titolo all’album racconta la storia di Connie, donna nigeriana venuta in Italia coi suoi figli per cercare un futuro migliore ma invece ha perso la vita in una stazione ferroviaria. Questa storia e le altre che racconti sono presi dalla tua vita personale?

Sì, sono tutti racconti presi dalla mia vita personale. Molti anni fa lavoravo e facevo turni di notte in una ditta alle porte di Milano, tornavo a casa verso 5 di mattina. Conny lavorava sullo stradone che collegava la mia ditta a Milano, finiva di lavorare a quell’ora e doveva tornare in stazione e aspettare il treno per Torino. Io le davo sempre un passaggio, ci raccontavamo le nostre vite, i nostri guai. Lei veniva dalla Nigeria e le sue speranze si erano infrante contro la durezza della vita che l’aveva buttata su una strada.

Aveva anche un figlio piccolo e mi diceva che non le importava nulla se la sua vita era diventata un inferno, l’importante era poter dare tutto quello che serviva a suo figlio. Col tempo le cose peggiorano e Conny perse la casa di Torino. Non avevano più un posto dove vivere e finì per dormire sui vagoni abbandonati della stazione centrale, con altri senza tetto. La vedevo, notte dopo notte, sempre più provata, finché una notte non vedendola dove di solito lavorava, chiesi alle sue amiche e mi dissero che era morta. Non seppi mai come e dove, né cosa ne fu del suo bambino.
Nella canzone immagino che l’anima di Conny torni per raccontare la sua storia dimenticata.

Se dovessi spiegare a un ragazzo l’importanza del genere blues, ragtime e gospel cosa gli diresti?

Non potrei, non sono un musicologo. Secondo me, non si può capire l’importanza di un genere musicale finché non ti tocca dentro. BB King parlando dei vecchi bluesman diceva “Li ascoltavo e sembrava che quella musica facesse qualcosa per me”. Ecco, o hai un’esperienza simile o nessun discorso potrà davvero fare in modo che tu riesca a coglierne l’importanza.

Tornando ai testi del disco, parlano di riscatto, del senso della vita, di malattia e solitudine. Il periodo della pandemia che stiamo vivendo è stato d’ispirazione?

No, le canzoni sono nate praticamente tutte prima della pandemia. Hanno a che fare con ciò che è stata la mia vita negli ultimi vent’anni, malattia compresa. Quando ero un ragazzino non sapevo cosa fosse l’esistenza e quanto si sarebbe rivelata più vasta delle mie convinzioni e sicurezze. E questo forse può riguardare anche la pandemia che ci ha investito.

Ci sono canzoni dei bluesman che ti hanno ispirato che riescono a descrivere questo momento di dolore, incertezza e paura che stiamo vivendo?

Ce ne sono decine, se dovessi scegliere, in questo momento direi Dry Spell Blues di Son House, Back Water Blues nella versione di Big Bill Broonzy e Hard Times Blues di Lane Hardin.

Nella speranza che il prossimo anno sia di buon auspicio per tutti, quali sono i tuoi prossimi progetti come artista?

Adesso sento una forte spinta creativa, lavorerò sulle canzoni che non sono entrate a far parte di questo nuovo album, altrimenti sarebbe stato un disco composto da trenta tracce. Mi dedicherò a tutto questo e soprattutto alla creazione di nuova musica.

a cura di
Beppe Ardito

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Beppe Ardito

Da sempre la musica è stata la mia "way of life". Cantata, suonata, scritta, elemento vitale per ridare lustro a una vita mediocre. Non solo. Anche il cinema accompagna la mia vita da quando, già da bambino, mi avventuravo nelle sale cinematografiche. Cerco di scrivere, con passione e trasporto, spinto dall'eternità illusione che un mondo di bellezza è possibile.

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