Il lascito di “The Last Dance”

Il lascito di “The Last Dance”
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Ci sarà un prima e un dopo The Last Dance, nella concezione e nella realizzazione di un documentario sportivo. Questo è stato chiaro per chiunque fin dal 19 aprile scorso, giorno in cui sono stati trasmessi i primi due episodi dello show.

La docu-serie distribuita da Netflix e co-prodotta, tra gli altri, con ESPN Films e NBA Entertainment, racconta in 10 episodi l’epopea di Michael Jordan e dei Chicago Bulls. Il racconto si sviluppa durante l’intero arco degli anni ‘90, culminando con la leggendaria stagione 1997-98.

Spiegare l’enorme successo di The Last Dance è abbastanza semplice (su ESPN gli ultimi due capitoli hanno frantumato i precedenti record di ascolti, facendo registrare una media di 5,5 milioni di spettatori).

La genesi e il target

Gli eventi che hanno portato alla realizzazione del documentario sarebbero meritevoli di un approfondimento a parte e sono stati riassunti magistralmente da Ramona Shelburne in un articolo su ESPN.

Quando, nell’estate del 1997, nei corridoi della NBA iniziò ad aleggiare la voce che la stagione successiva sarebbe stata l’ultima di Jordan e di quei Bulls (da qui “The Last Dance”, coniato da coach Phil Jackson), il produttore di NBA Entertainment Andy Thompson (fratello di Mychal e zio di Klay, entrambi campioni NBA) propose di riprendere per intero il dietro le quinte dei Bulls lungo tutto l’arco dell’anno.

Il proprietario Jerry Reinsdorf e Jackson accettarono, ma rimaneva da convincere Jordan. Michael accettò, ma non prima di avere ottenuto il controllo totale sui filmati, che non si sarebbero potuti diffondere senza il suo consenso.

Vennero così girate circa 500 ore di riprese. Tuttavia i nastri rimasero chiusi in un ufficio della NBA per 18 anni prima che Jordan si convinse a renderli pubblici. Non è difficile credere che i Golden State Warriors e LeBron James siano le cause della decisione, ma questa è un’altra storia.

I filmati inediti sono così le basi dell’intero racconto. Un racconto pensato per un pubblico generalista e rivolto anche a coloro che non hanno mai visto una partita in vita loro o che conoscono Jordan solo per via delle scarpe o di Space Jam. Questo ha ovviamente permesso di allargare la platea di spettatori, rendendo lo show attrattivo per il maggior numero di persone possibile.

La storia di quei Bulls e Michael Jordan hanno fatto il resto. Prendere uno degli sportivi più iconici della storia e cucirgli attorno un prodotto ben confezionato in grado di parlare non solo alla nicchia di appassionati NBA, non poteva che rivelarsi un progetto vincente, e così è stato.

Jordan e i Bulls

La narrazione inizia nell’estate del 1997 e si conclude nel giugno 1998, con la vittoria del sesto e ultimo titolo NBA da parte dei Bulls. Nel mezzo del racconto, si alternano numerosi flashback che ripercorrono il percorso di Jordan e di Chicago fin dalla metà degli anni ‘80, e approfondimenti specifici sulle altre figure chiave di quella squadra. Da Scottie Pippen a Dennis Rodman, da Phil Jackson a Toni Kukoč.

È chiaro, ed era chiaro ancor prima dell’uscita, come l’intera docu-serie dovesse essere Jordan-centrica. Non solo perché di fatto MJ detiene il controllo su alcune delle immagini trasmesse, ma perché la sua figura è soverchiante rispetto a quella di chiunque altro.

Il tempo complessivo nel quale Jordan appare sullo schermo nell’arco dei 10 episodi, è pressoché identico a quello complessivo degli altri intervistati, e anche questo era facilmente prevedibile fin dall’inizio.

Si assiste in questo modo all’intera carriera di MJ, dagli anni del college fino all’epilogo di Salt Lake City (i due anni a Washington successivi al secondo ritiro facciamo finta che non siano mai esisti, per il bene di tutti).

Un arco narrativo che, come detto in precedenza, copre più o meno una ventina d’anni, che mostra non solo le vittorie e le funzionali sconfitte che le hanno precedute, ma mette in luce anche i sottili equilibri extra-campo, di quella che sarà una delle squadre più dominanti della storia dello sport.

La vita di Michael dentro e fuori il parquet sembra scritta da uno sceneggiatore hollywoodiano, e Jason Hehir, il regista della serie, è riuscito a coglierne gli aspetti melodrammatici sfociando quasi nella mitologia.

His Airness

Perché Jordan non è stato solamente il miglior giocatore di basket mai visto sulla Terra, ma è anche stato il primo sportivo a divenire un brand. L’impatto sulla moda, sulla società e sulla cultura americana e mondiale, non hanno infatti alcun precedente ma viceversa molti successori.

Da Jordan in poi, il mondo dello sport ha iniziato ad espandersi economicamente al di fuori dei campi da gioco. Le aziende, così, hanno capito che si poteva trasformare un tizio in canotta e pantaloncini in una macchina da soldi.

Le Air Jordan sono state – e sono tuttora – veri e propri oggetti di culto per appassionati e collezionisti di tutto il mondo, e la stessa Nike non sarebbe probabilmente diventata ciò che è oggi se non avesse convinto Michael a firmare un contratto che, a metà degli anni ‘80, sembrava una follia.

Secondo i dati di Forbes, la linea che Nike ha dedicato a Jordan (la celeberrima Air Jordan, la cui silhouette è riconosciuta in tutto il mondo) rappresenta ancora oggi l’8% dei ricavi dell’azienda, con un fatturato di 3,1 miliardi di dollari solo nel 2019.

Non solo, dal 1984 ad oggi, il colosso dello Swoosh ha versato nelle tasche di Michael una cifra vicina a 1,2 miliardi di dollari.

Queste cifre, seppur mastodontiche, non spiegano fino in fondo l’impatto culturale di Jordan per il mondo intero, verso la metà degli anni ‘90. Nel documentario Barack Obama ha dichiarato che Jordan ha esportato l’America nel mondo, contribuendo a diffondere un nuovo tipo di cultura pop americana, che ha inevitabilmente marchiato a fuoco gli anni successivi, nello sport, così come nella moda e nella musica.

Un brand universale

Michael Jordan ha cambiato in maniera irreversibile il modo di concepire i più grandi sportivi del mondo, mediaticamente ed economicamente. MJ era più famoso della NBA stessa.

Era un brand vivente, riconosciuto universalmente anche al di fuori del proprio ambito di appartenenza, così come lo sono oggi LeBron James e Usain Bolt, Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, Serena Williams e Roger Federer. La strada, però, l’ha aperta lui.

Luci e ombre

Ci sono, per ovvi motivi, molte luci attorno a Michael Jordan, ma le ombre non mancano affatto. E The Last Dance non aiuta a dissiparle.

Una delle critiche maggiori ricevute dalla docu-serie è quella di essere una celebrazione ai limiti dell’agiografia di un uomo che ha avuto, come tutti, i suoi lati oscuri. Si parla delle passioni (dipendenze?) di Jordan per le scommesse e il gioco d’azzardo, ma il tutto è estremamente filtrato da Michael e non viene di fatto approfondito.

Si parla delle umiliazioni e della tirannia che Jordan perpetrava non solo sugli avversari, ma anche sui suoi compagni di squadra. E anche se MJ arriva riconoscere la sua durezza con i compagni, il tutto viene giustificato con il raggiungimento dell’obiettivo finale, la vittoria.

In linea generale, poi, non emerge nulla che non si sapesse già. È proprio questo ciò che gli appassionati e i profondi conoscitori della NBA rimproverano alla serie. Non viene infatti apportata nessuna sostanziale novità dal punto di vista storiografico né su Jordan né sui temi legati alla NBA dell’epoca.

Al contrario il racconto è stato considerato eccessivamente piegato al volere di Jordan, cosicché ne risulta un prodotto sostanzialmente autocelebrativo.

La critica più feroce si riferisce al trattamento che è stato riservato all’ex GM dei Chicago Bulls Jerry Krause. Preso di mira più volte non solo per le sue scelte riguardanti il destino della squadra, ma anche per il suo aspetto fisico.

Non gli sono stati invece riconosciuti, se non sommessamente solo nell’ultimo episodio, i meriti per aver di fatto costruito due cicli vincenti e due versioni dei Bulls irripetibili

Serviva un cattivo, e Krause sembrava tagliato apposta per il ruolo. Quel che è sembrato davvero di pessimo gusto, è stato attaccarlo in quel modo, senza che lui potesse difendersi, essendo scomparso nel 2017.

La bellezza è negli occhi di chi guarda

Tirare le somme su The Last Dance non è affatto semplice. Come detto in precedenza, la docu-serie ha registrato un numero di ascolti gigantesco, ed è stata estremamente apprezzata dal pubblico generalista. Viceversa, tra gli appassionati NBA ha creato più di un malumore. Come tante cose della vita, probabilmente, molto dipende dagli occhi con le quali le si osserva.

Se gli occhi sono quelli di un timido appassionato o di chi sa a malapena che a basket si debba infilare la palla dentro un canestro, allora The Last Dance risulterà un viaggio. Un bellissimo viaggio alla scoperta non solo di uno sport meraviglioso, ma di uno degli sportivi più grandi di sempre.

Chi rientra in questa categoria deve essere consapevole che la serie non può rappresentare un punto di arrivo, semmai un punto di partenza per approfondire di più una vicenda che somiglia realmente ad un copione cinematrografico.

Se lo spettatore è un appassionato NBA, la possibilità che rimanga deluso esiste. Come detto, The Last Dance non contiene nulla (a parte le immagini inedite) che già non si sapesse.

The Last Dance può comunque essere apprezzato, perché è un prodotto di indiscussa qualità visiva e narrativa; con una colonna sonora evocativa che spazia dagli OutKast a Notorius B.I.G. ai Pearl Jam. Era lecito attendersi qualcosa di più? Probabilmente sì. Sapendo che Michael Jordan aveva il controllo sul prodotto, ci si poteva attendere un esito diverso? Probabilmente no.

Comunque la si pensi, è stata una fortuna che quei Bulls abbiano ballato insieme per un’ultima volta, e sarebbe sbagliato non prendere parte e non godersi almeno un po’ quel magnifico ballo.

a cura di
Simone Stefanini

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Simone Stefanini

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