Il capolavoro di David Lynch, “The Elephant Man”, torna al cinema restaurato da da Studio Canal in 4K, dal 16 al 18 giugno. Ricordiamo che il film fa parte della rassegna “The Big Dreamer – Il cinema di David Lynch”, distribuita da Lucky Star col supporto della Cineteca di Bologna. Un film atipico nelle produzioni del regista, che, tuttavia, ci consegna un’opera coinvolgente emotivamente, pur rimanendo fedele al suo stile unico.
“Credo che il film parli di tante cose. La maggior parte non sono tutte bianche o nere. Penso che molto dipenda dalle sfumature della vita. Ma è il modo più semplice per vedere le cose. E’ un film che vuole illuminare il pubblico su ciò che viene profondamente frainteso. Le cose non sono come sembrano. Ecco cos’è.”
John Hurt (John Merrick), “The Elephant Man”
The Elephant Man non è un film di fantasia. Il protagonista, John Merrick, è realmente esistito ed è vissuto nella Londra vittoriana.
Grazie alla documentazione fotografica dell’epoca si è infatti potuto conoscerne l’aspetto. Fin dall’infanzia era afflitto da una malattia rara che rendeva la sua pelle spugnosa e cadente. Il suo cranio gigantesco era deformato da protuberanze. Sul volto, il labbro superiore sporgeva verso l’esterno, ricordando vagamente una proboscide – da cui il suo soprannome –, mentre gli arti inferiori erano deformi. Era zoppo a causa di una malattia alle anche e, dulcis in fundo, emanava un odore pestilenziale.
Secondo il suo protettore, il dottor Treves (il cui libro è stato una delle fonti della sceneggiatura), aveva girato per vent’anni da un luna park all’altro, coperto da un cappuccio calato sulla testa gigantesca. Treves scoprì l’uomo elefante in un baraccone di Londra dove veniva esibito per due penny. “Alzati!” gli ordinava Bytes, colui che si definiva “il suo proprietario”.
Con notevoli sforzi il dottore lo accudirà nelle stanze dell’ospedale, contribuendo al suo mantenimento e prodigandosi per sensibilizzare l’opinione pubblica tramite una raccolta fondi. Questo gli consentirà di ricevere molte visite e l’attenzione della Casa Reale. Quell’essere – considerato un freak abominevole – si rivelerà una persona sensibile e colta, amante dei romanzi sentimentali e delle donne.
Merrick “The Elephant Man” è la dimostrazione vivente che il confine fra diversità e normalità è molto più labile di quanto possa sembrare.
Un evergreen
La sceneggiatura era stata scritta da Eric Bergen e Christopher de Vore, basandosi sui libri The Elephant Man and Other Reminiscences di Sir Frederick Treves e The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Ashley Montagu. David Lynch accettò con entusiasmo, rivedendola a suo modo, e la produzione fu affidata a Mel Brooks, il quale decide di non essere accreditato per evitare di essere associato alle sue commedie.
ll film fu candidato ad otto Premi Oscar, ma vide la meglio Gente comune di Robert Redford. Mel Brooks dichiarò in seguito: “Da qui a dieci anni Gente comune sarà la risposta a un gioco di società; ma la gente andrà ancora a vedere The Elephant Man.”

Vi chiederete come sia riuscito David Lynch a metterci lo zampino. Quali sono gli elementi che lo caratterizzano in questo film, apparentemente fra i più anonimi del regista? Come qualcuno ha scritto, Lynch costruisce i suoi film e qui è evidente l’utilizzo del bianco e del nero inglese in epoca vittoriana, realizzato con l’ausilio del grande Freddie Frances.
Dettagli importanti
Le atmosfere, le ambientazioni e i contrasti, che rimandano ai film gotici della Hammer (la società di produzione che rivoluzionò l’estetica del cinema horror); ma anche il respiro difficile, asmatico e terrorizzato di John Merrick, prima ancora di vedere i suoi lineamenti sotto il cappuccio. Sono tutti dettagli che Lynch imbastisce per coinvolgere lo spettatore.
Suoni e atmosfere che ribaltano la concezione del film horror: non c’è un mostro che uccide, ma una sorta di mostro spaventato a morte dal mondo circostante.
Infine, il tema musicale curato da John Morris e basato su tre motivi principali che esprimono un’idea di fatalità. Un valzer dolce e straziante come un lamento (il tema dell’uomo-elefante), quello prorompente e meccanico dell’organetto durante la fiera (John Merrick martirizzato dai suoi visitatori notturni) e infine quello viennese, sontuoso e impettito per la rappresentazione della pantomima.
L’ispirazione deriva dall’ammirazione di Lynch del tema de La Strada di Nino Rota, pellicola che presenta molte analogie con The Elephant Man, raccontando lo stesso calvario di una creatura fiduciosa e disarmata.
“Anche a Londra ci sono tanti posti differenti ed è per questo che mi piaceva. Captavo quel che c’era di inglese nell’aria, ma per il film traevo ispirazione e idee più dai libri su Londra che dalla città in sé, poiché dovunque andassi ero fuori dal ‘territorio’ di “The Elephant Man”. Poi un giorno mi trovai a passeggiare in un ospedale abbandonato e improvvisamente qualcosa di lieve, di impalpabile, penetrò dentro di me: non solo stavo vivendo quell’epoca, ma ne avevo consapevolezza. […]
E poi la Rivoluzione industriale. Hai presente le immagini di esplosioni, grandi esplosioni? Mi hanno sempre ricordato i papillomi, le escrescenze sul corpo di John Merrick: somigliavano a delle lente esplosioni che partivano dalle ossa. In questo senso l’idea delle ciminiere, della fuliggine, delle industrie che circondavano quel corpo e quella carne fu per me un altro motivo d’ispirazione.”David Lynch
David Lynch firma così una produzione hollywoodiana senza abbandonare la sua libertà creativa. Come sempre, utilizza suoni, musiche ed ispirazioni per farci rivivere lo stato d’animo di un uomo che combatte la propria umanità. E, non ultimo, l’uso di opere pittoriche a cui ha sempre guardato. In questo caso, forte è l’ispirazione tratta dall’autoritratto di Francis Bacon, datato 1969.
Anche in questo caso, la grandezza del regista è la capacità di coinvolgere raggiungendo l’animo umano e le sue sensazioni. In questo caso la paura di John Merrick, il suo desiderio di essere considerato un uomo, lo sforzo di adeguarsi ad una condizione che il destino gli ha precluso.
Insomma, un film che va vissuto come un’esperienza che non può lasciare indifferenti.
a cura di
Beppe Ardito
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