“A Real Pain”: la recensione del tour nella memoria ebraica tra Varsavia e il dolore personale

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“A Real Pain” è il nuovo film di Jesse Eisenberg, in arrivo al cinema da domani, giovedì 27 febbraio. Attraverso un viaggio in Polonia lungo i luoghi della memoria dell’Olocausto, lo spettatore diviene parte integrante del tour, in un percorso che non è solo storico, ma decisamente personale. Mentre il passato collettivo si impone con la sua forza, i protagonisti affrontano il peso intimo delle proprie ferite, in un rollercoaster di emozioni e stati d’animo dolorosi e complicati da gestire

Trovarsi di fronte al dolore degli altri è spesso un’esperienza destabilizzante. Si vorrebbe dire o fare qualcosa, ma il rischio di risultare inadeguati blocca ogni slancio. L’empatia diventa un terreno scivoloso: per comprenderla davvero bisognerebbe saper uscire da se stessi, ma la sofferenza ha il potere di richiudere, isolare e di far sembrare ogni patimento un affare privato.

Eppure, è proprio nel riconoscimento del dolore altrui che si riscopre la possibilità di condividere il peso della propria esistenza. A Real Pain è la prova di quanto la comunità possa influenzare un individuo, in questo caso in modo positivo.

La trama

David e Benji, due cugini molto diversi tra loro, si ritrovano all’aeroporto. Nati a tre settimane di distanza, sono stati molto legati durante l’infanzia, ma la loro vita ha preso poi strade totalmente diverse. Hanno quindi deciso di partire per la Polonia per onorare l’amata nonna Dory e connettersi con la sua storia passata.

Giunti sul posto, si uniscono ad un tour turistico di cui fanno parte un gruppo di persone con un legame o un trauma collegato all’esperienza ebraica. Il viaggio che verrà mostrato allo spettatore è principalmente interiore, mentre si ripercorre la storia tragica di un intero popolo.

Il dolore di Benji

Il viaggio più interessante in A Real Pain è quello nell’anima di Benji (Kieran Culkin), un ragazzo che soffre di depressione.

Il giovane prova infatti un dolore silenzioso che lo rende quasi un corpo estraneo nel mondo. Non ha un posto preciso, non riesce a collocarsi davvero nella vita, eppure sente tutto con una profondità disarmante. È ipersensibile e capta negli altri sfumature di dolore che nessuno nota, nonostante il suo rimanga lì, inespresso. E così, Benji fa per gli altri ciò che vorrebbe ricevere lui stesso: offre conforto, leggerezza, attenzioni, sperando – forse – che qualcuno si accorga di quello che prova, senza bisogno di dirlo.

Il proposito del film, geniale e allo stesso tempo necessario, sottolinea quanto sia importante averne consapevolezza: il dolore è una gabbia dalla quale non basta la volontà per uscire. Non è semplice e non si tratta di una questione di scelte o di forza di volontà. È un peso che si porta dentro in silenzio e che il mondo spesso non sa come riconoscere.

Il dolore di David

C’è poi un altro tipo di dolore all’interno del film ed è quello che non si vede, ma che viene nascosto dietro una vita apparentemente perfetta. David (Jesse Eisenberg) è un personaggio interessante perché incarna proprio questa forma di sofferenza silenziosa: ha tutto ciò che dovrebbe renderlo felice (una famiglia, una certa stabilità), eppure dentro di sé porta un peso che non osa esprimere. Non lo nega, ma semplicemente non lo considera abbastanza importante per condividerlo.

Il suo dolore resta chiuso dentro, forse perché crede che ci siano sofferenze più grandi e più meritevoli di essere raccontate. Così facendo, invece di viverlo, lo trattiene, lo minimizza e lo copre con un sorriso. Ma la sofferenza inespressa non scompare: resta lì, invisibile agli altri e persino a se stessi, mentre scava lentamente dentro.

Il dolore di un popolo

Il cuore visibile del film è il viaggio attraverso i luoghi della memoria, in particolare i campi di concentramento di Varsavia.

Qui il film non ha bisogno di parole in più o di spiegazioni ridondanti, ma lascia che sia il silenzio a parlare. Un silenzio assordante, che avvolge i personaggi e lo spettatore dopo la visita al lager, perché di fronte a certi orrori non esistono parole capaci di esprimerli.

La colonna sonora si spegne, ed in quel vuoto emergono l’importanza del ricordo e la consapevolezza che il dolore della storia sia ancora lì, impresso nelle mura, nelle assenze, nei passi lenti di chi attraversa quei luoghi importanti da ricordare.

La regia trasforma il pubblico in parte integrante del gruppo, immergendolo nel giro turistico fino a fargli provare una sorta di sentimento di appartenenza ad esso – e quasi un senso di perdita, quando il viaggio finisce. Perché, anche se il tour si chiude, il peso di quello che si è visto e sentito – o di tutto quello che non si è riusciti a dire – continua a restare dentro.

L’empatia come strumento di comunicazione umana

A Real Pain è un film che ha il coraggio di mettere lo spettatore a disagio, costringendolo a guardare in faccia la sofferenza altrui, a confrontarsi con la propria paura di non essere all’altezza e con il desiderio istintivo di distogliere lo sguardo, di tornare alla propria vita e dimenticare.

Ma dimenticare non è un’opzione e questa pellicola lo ribadisce con forza. Lo insegnano i campi di concentramento, lo mostra la Giornata della Memoria: il passato non va rimosso, ma ascoltato, capito, condiviso. Così come non vanno dimenticate le persone, i loro bisogni e il loro dolore, che non è mai troppo piccolo per non essere riconosciuto.

Perché la memoria non è solo un esercizio storico, ma un atto di responsabilità verso gli altri, volta al presente e al futuro.

a cura di
Michela Besacchi

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