“Inshallah a Boy” – la recensione in anteprima

“Inshallah a Boy” – la recensione in anteprima
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“Inshallah a boy”, esordio alla regia di Amjad Al Rasheed, è il primo film giordano presentato al Festival di Cannes. Vincitrice del “Premio Gan” per la distribuzione e del “Premio Rail d’Or” nella sezione “Semaine de la Critique”, la pellicola è disponibile al cinema a partire da oggi 14 marzo.

Se nel 2024 è ancora necessario l’intervento dell’Arte per mettere in primo piano il problema del patriarcato e del maschilismo tossico, significa che di passi in avanti se ne sono fatti ben pochi. Se poi il focus è sulla Giordania, paese islamico e quindi socialmente legato alla Shari’a, il lavoro è soltanto iniziato. Parliamo dunque di Inshallah a boy, la pellicola di Amjad Al Rasheed presentata al Festival di Cannes come primo film giordano.

“Inshallah a boy”

L’opera si apre in un ambiente che rasenta uno scenario post-apocalittico, arido territorialmente e povero di empatia, un luogo che può essere unicamente culla del dolore. Qui conosciamo Nawal (Mouna Hawa), umile donna giordana rimasta vedova prima di riuscire a portare alla luce un figlio maschio.

La morte improvvisa del marito getta Nawal in un turbine di problemi familiari e rivelazioni sconcertanti sul passato. Inoltre, l’oppressiva presenza del cognato (che vuole strapparle la casa e la figlia), unita alla terribile ignavia del fratello, complica il futuro della giovane donna.

Solo due lumi di speranza aiuteranno la donna ad affrontare il presente ed il futuro prossimo: da una parte l’amico fisioterapista (Eslam Al-Awadi), attratto dal lei e sempre presente per aiutarla, dall’altro la figlia della padrona di casa per cui lavora (Yumna Marwan), con cui stringerà un rapporto più di simbiosi che di amicizia.

La protagonista e la figlia che mangiano insieme
Il cammino verso il progresso, ma su un tapis roulant

Partendo dal tessuto intricato della società giordana, ciò che salta subito agli occhi è il contrasto tra la visione patriarcale e l’ondata di occidentalizzazione, e come esso si svolga a mo’ di balletto incerto, come su un tapis roulant.

La protagonista, cresciuta in una famiglia legata alle tradizioni del passato – simbolicamente raffigurata dalla casa fatiscente in cui abita -, si scontra frontalmente con la figlia della ricca padrona di casa, incarnazione delle idee e dei concetti moderni. Nonostante siano vicine di età, rappresentano le polarità opposte della Giordania contemporanea.

Questo scontro si manifesta in molteplici sfaccettature della loro vita quotidiana: dalla comprensione dell’amore e della passione, dove la protagonista fatica a vedere oltre i precetti rigidi della Shari’a, alla percezione dei ruoli di genere e delle aspirazioni individuali. Tuttavia, nel corso della narrazione, queste due anime contrapposte trovano un punto d’incontro, unendo le loro forze per superare le grandi sfide che si ergono nelle loro vite.

Eppure, nonostante l’apparente avanzamento, il progresso, l’occidentalizzazione (nell’accezione positiva del termine), il ritmo costante di questo tapis roulant sociale sembra suggerire che, in fondo, nulla cambi mai davvero.

Desideri diametralmente opposti

Il parallelismo sociopolitico sfocia poi nei due pensieri delle due donne, totalmente agli estremi. La pellicola rende il loro snodarsi, respingersi e poi attrarsi, il blocco portante del film stesso.

Il sogno della protagonista era quello di rimanere incinta, tentato fino all’ultimo respiro del partner. Un figlio maschio, infatti, è simbolo di stabilità, futuro certo e continuo della specie. Avrebbe elevato la donna dal piano di debolezza e di insicurezza in cui si ritrova, sia nei confronti del paese che dei parenti.

Dall’altra parte la figlia della padrona, tradita dal marito, vorrebbe invece abortire. Perdere l’ultimo ricordo dell’amara relazione col coniuge sarebbe un grande sollievo per lei, per poter ricominciare lasciandosi il passato alle spalle.

Due desideri opposti che però non confliggono poiché, nonostante uno richiami la nascita e l’altro la morte, contestualizzati acquistano un loro significato. E rappresentano l’ennesima polarizzazione che contraddistingue la pellicola.

La protagonista che si confronta col cognato
C’è speranza? Sì, ma bisogna crearsela

Ciò che ci resta impresso del film è l’attaccamento della protagonista al suo pick-up, la cui vendita avrebbe di certo sanato parte dei debiti e aiutato la donna a riassestarsi all’interno della società (il piccolo spoiler è che esso, infatti, non verrà mai venduto).

Allora perché Nawal finirà per tenerlo, contro tutte le avversità, nonostante non lo sappia guidare?

Nella domanda stessa troviamo in realtà la risposta: il regista vuole farci capire che l’unica strada perseguibile per uscire da una società retrograda e così legata al passato è quella di costruirsi tutto da sé, facendosi coadiuvare, sì, ma mettendo in primo luogo sé stessi al lavoro. Nawal cercherà di imparare a guidare per vincere una sfida della sua vita. Per accendere la speranza di riuscire in qualcosa.

Conclusioni

Sorrido amaramente nel pensare alla speranza in questo film, perché di certo essa non basta e non basterà. Ma è corretto svilupparne un ragionamento e una discussione, intima proposta che faccio a voi lettori.

Da oggi, Inshallah a Boy vi aspetta in sala!

a cura di
Francesco Pasquinelli

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