Israele, la fragile democrazia del Medioriente

Israele, la fragile democrazia del Medioriente
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Il 14 maggio 1948 venne proclamata ufficialmente la nascita dello Stato di Israele. Fondato sui valori liberaldemocratici, con l’obiettivo di portare la pace nella regione palestinese, ad oggi Israele vacilla tra una complicata situazione geopolitica e una grande instabilità interna.

L’idea di creare uno stato per le popolazioni di religione ebraica nella Terra Promessa o Terra d’Israele compare per la prima volta nel 1896. In quell’anno, Thomas Herzl pubblica il pamphlet “Lo Stato Ebraico”, dando corpo al sionismo e al rispettivo movimento. I momenti chiave per la futura nascita di Israele sono racchiusi tra il 1920 e il 1947, anni del mandato britannico in Palestina. Spinti dal crescente antisemitismo in Europa e successivamente, dagli avvenimenti della Shoah, sempre più ebrei emigrano in Palestina. Si passa da circa 80mila persone di religione ebraica nella regione nel 1922 a oltre 900mila alla fine della guerra. Sebbene in un primo momento arabi ed ebrei riuscissero a convivere pacificamente, la tensione tra le due popolazioni divenne sempre più alta.

La prospettiva dello scoppio di un nuovo, sanguinoso conflitto in un contesto turbolento come quello dell’inizio della Guerra Fredda ha spinto le Nazioni Unite ad impegnarsi per evitare altri morti. Il 29 novembre 1947, con la risoluzione 181, l’Onu sanciva la partizione del territorio palestinese. È la prima pietra verso la creazione dello stato di Israele, proclamato indipendente da Ben Gurion il 14 maggio 1948, 75 anni fa.

Una dichiarazione di guerra

La divisione predisposta dall’Onu assegna al neonato stato di Israele il 56% dei territori dell’ex mandato inglese, principalmente lungo le coste. Alla Palestina rimane gran parte dell’entroterra e la cosiddetta striscia di Gaza. La città di Gerusalemme sarebbe rimasta sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Il piano di partizione della Palestina voluto dall’Onu. In blu, i teerioti israeliani. In giallo, quelli palestinesi. Fonte: Wikipedia

La pace predisposta dalla comunità internazionale dura meno di un giorno. Il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania attaccarono il neonato Israele. Inizia un conflitto sanguinoso, sporco, che dura ancora oggi: la guerra israelo-palestinese.

Dalla prima guerra arabo-israeliana del 1948 Israele ne uscì vincitore. Approfittando della ritirata nemica Israele inizia inoltre ad appropriarsi di alcuni territori assegnati ai palestinesi, sgretolando ulteriormente il piano di pace dell’Onu. Dopo il 1948, le tensioni tra Israele e Palestina si accentuano, alimentate anche dal contesto della Guerra Fredda. Altri due conflitti sanguinosi colpiranno la regione: la guerra dei Sei giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973, durante le quali alle violenze arabe si oppone il desiderio espansionistico di Israele, che sfrutterà il conflitto per erodere sempre di più la coesione territoriale palestinese. Inutile dire che i tentativi di pace come gli Accordi di Camp David del 1978 e gli Accordi di Oslo del 1993 siano stati fallimentari.

L’Israele di Netanyahu

L’instabilità del conflitto con la Palestina ha indubbiamente un importante ritorno a livello politico interno in Israele. Nel corso degli anni, le priorità politiche di Tel Aviv sono sempre state due: il consolidamento territoriale e la conseguente ricerca di una stabilità con i propri vicini. All’indomani degli speranzosi accordi di Oslo, la pressione sull’allora governo del laburista Shimon Peres per risolvere l’annosa questione dei negoziati con la Palestina era altissima.

La serie di attentati da parte di Hamas, gruppo terroristico palestinese, decretarono il fallimento dell’approccio di Peres. Alle successive elezioni del 1996, Peres viene sconfitto da quello che diventerà il Primo Ministro più giovane dal 1948, Benjamin Netanyahu. Netanyahu si fa riconoscere sulla scena politica israeliana per la sua formazione americana, sponda Repubblicana, che cercherà di portare anche in Israele, non venendo compreso troppo dalla popolazione. Il primo governo di Netanyahu dura solo tre anni, fino al 1999. Complici della sua caduta, le fallimentari negoziazioni con le autorità palestinesi, che non avevano portato né a una maggiore sicurezza né tantomeno alla pace. A queste si aggiungono una serie di scandali e accuse di corruzione.

Netanyahu ritornerà sulla scena politica israeliana dieci anni dopo, quando vincerà le elezioni del 2009, verrà rieletto nuovamente Primo Ministro. Ricoprirà questo ruolo per i successivi dieci anni in maniera relativamente stabile, oscillando tra coalizioni centriste e di destra. In questo periodo, gli avvenimenti più rilevanti sono due. Uno di politica estera, riguardante la sempre complessa situazione di guerra con la Palestina, dove Netanyahu si impegnerà di contrastare la presenza di Hamas nella Striscia di Gaza. L’altro, è la formalizzazione delle accuse di corruzione, abuso di ufficio e frode nei confronti di Netanyahu nel 2019 da parte della Corte Suprema, un unicum nella storia di Israele.

La lenta frammentazione della democrazia israeliana

Le gravi accuse rivolte al Premier coincidono con l’inizio di un periodo d’instabilità politica che si sta intensificando sempre di più negli ultimi mesi. Basti pensare che il solo 2019 è stato caratterizzato da due elezioni politiche nazionali a distanza di 5 mesi l’una dall’altra nelle quali il partito di Netanyahu, Likud, non riuscirà mai ad ottenere la maggioranza per formare un governo. Questa tendenza si protrae fino a luglio 2022, quando ci si illuse che l’elezione di Yair Lapid nel ruolo di Premier avrebbe permesso di stabilizzare maggiormente il paese e di voltare definitivamente pagina a livello politico. Inutile dire che anche Lapid rimane vittima dell’instabilità sistemica che poco traspare sui media occidentali ma che sta man mano sgretolando una democrazia che si sta rivelando sempre più fragile.

La prova maestra è la scelta di affidare nuovamente il governo a Netanyahu il 29 dicembre 2022, confermando il suo primato di Premier rimasto in carica più a lungo della storia di Israele. Al di là delle riflessioni sbagliate che spesso si fanno associando l’idea di stabilità con la democrazia, la ridiscesa al potere di Netanyahu ha portato ad un ulteriore indebolimento dell’apparato sociopolitico israeliano. Il casus belli è la proposta di riforma della giustizia fatta dal governo, che punta a togliere i poteri alla Corte suprema per conferirli al Parlamento, facendo crollare il pilastro dell’indipendenza della magistratura. È evidente che la mossa di Netanyahu punta a “vendicare” le accuse ricevute nel 2019 dalla Corte, deprivandola dei propri poteri.

La primavera israeliana

Il popolo israeliano non sta rimanendo immobile a questa decisione. Da gennaio 2023, pesanti proteste e mobilitazioni stanno colpendo tutto il paese, dando prova di una strenua opposizione della popolazione alla riforma voluta da Netanyahu. Al momento la riforma è stata congelata, ma sarebbe ingenuo pensare ad una resa del Premier su questo dossier. Si sta infine diffondendo sempre di più l’idea di una “primavera israeliana”, nel quale la popolazione combatte strenuamente contro le derive autoritarie dei suoi leader eletti democraticamente. La speranza è che questa primavera possa sbocciare al più presto, aprendo un nuovo capitolo per Israele e il Medioriente.

a cura di
Luca Chieti

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