“Ahahah”, l’album d’esordio di De Relitti

“Ahahah”, l’album d’esordio di De Relitti
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Lo scorso 20 gennaio De Relitti, ha rilasciato il suo primo album “Ahahah” per Pioggia Rossa Dischi. Un esordio intenso, ricco di sfumature che rappresenta una sorta di dichiarazione d’intenti da parte del cantautore. Dieci tracce (undici considerando l’outro) in cui De Relitti ci catapulta nel suo mondo, nelle pieghe delle sue sfaccettature.

Ciao De Relitti e benvenuto su The Soundcheck. Prima di parlare del tuo album d’esordio “Ahahah”, una domanda che ti avranno fatto centinaia di volte; provo a farla suonare meno mainstream.
Leggo dalla tua Bio «De Relitti è una specie di cantautore italiano, con tutti i rischi che ne conseguono»: assodato che tu sia un solista, ci racconti la scelta di questo nome d’arte che sembra in qualche modo rimandare a diverse moltitudini?

Ciao! E grazie. Vero, è una domanda che mi fanno spessissimo e che aggiro immancabilmente: un po’ per mantenere un po’ di sintomatico mistero, un po’ perché la risposta esiste ed è complessissima. Ancora più spesso, scrivono il nome tutto attaccato; e quindi pensano che io sia una band, i Derelitti. Una roba tipo “I Corvi”, te li ricordi? Comunque, deve essere colpa del mio profilo Instagram, dove effettivamente è scritto tutto attaccato. Occhio al nome che ti scegli, su IG.

Invece De Relitti si scrive staccato e vuole suonare come il cognome di un cantautore, basato su un gioco di parole sottile e paradossale. All’inizio di questa storia, mi facevo chiamare “Ardesia”. La spinta per cambiarlo è arrivata da uno dei miei due co-producer. Come una specie di santone tibetano, mi ha fatto seraficamente notare che la musica che veniva fuori dalle casse non suonava come “Ardesia”. Si è rimesso al lavoro, lasciandomi in preda alle mie riflessioni. “Riflessioni” è la versione 1997 di “Paranoie”, per capirci.

Dopo l’ennesimo caffè, ho cominciato ad annotare nuove possibilità su un blocco note trovato lì in studio. Ho sempre cercato titoli e nomi in questo modo: scrivendo. Dopo un po’ di “riflessioni”, arreso sulla mia poltroncina, mi è capitato di fare attenzione ad un verso del pezzo sul quale stavamo lavorando: “ci sono cose che so fare affondare, intendo altre cose oltre me”. In quei giorni cominciavo a capire che il teatro di questo disco è il mare, al quale torno ossessivamente di traccia in traccia; allora ho deciso di partire da lì, dal mare, da me che ci affondo. Dal relitto.

Ma non era abbastanza, così ho cominciato a rileggere le altre cose che avevo segnato sul blocchetto. Volevo mischiare “relitto” ad altro. Mi sono fermato al nome quasi nobiliare che mio nonno -sfortunato aspirante attore all’ombra del secondo conflitto mondiale- si era scelto: De Robertis. “De Relitto”, “De Relittis”? l’incrocio paradossale cominciava a piacermi: l’aggettivo derelitto che suona come il cognome una specie di dandy italiano. L’ho sentito subito mio, una contraddizione in stile “ladro gentiluomo”. Chiedo pubblicamente scusa a Leblanc.

La S è caduta perché -banalmente- il nome suona meglio senza. Gli amici hanno cominciato a chiamarmi “De Re” quasi subito e la cosa mi rende molto felice. A me piace, ci piacciamo. Tutti contenti.

“Ahahah” suona come un qualcosa che arriva da coordinate geografiche e temporali inedite all’interno delle quali, tuttavia, si riescono a cogliere riferimenti musicali ad un mondo anni ’70. La varietas la fa da padrona; nelle dieci tracce dell’album (undici se consideriamo l’outro), esplori la forma canzone in svariate sfaccettature. Ci racconti il tuo processo creativo?

Prima di diventare De Relitti ero altro; e quando ero altro, mi piaceva partire da una piccola idea strumentale e poi espanderla. E l’espandevo fino a che l’idea stessa non mi suggeriva di cosa parlare e in che modo farlo. I brani del tempo -mi dicevano- avevano un fortissimo sentore cinematografico, tanto che per un po’ ho pensato di buttarmi sulla sonorizzazione di film. Il primo brano che ho portato in studio (il Blue Moon Rec di Firenze) è nato proprio in quel modo, ma poi è scattato qualcosa: l’incontro con DrLanda & MrKite (al secolo: Tommaso Giuliani e Samuele Cangi) mi ha aperto gli occhi su una forma canzone diversa, più a fuoco e -allo stesso tempo- meno prevedibile.

Ricordo che in quei giorni, tornato dallo studio, mi rimettevo a scrivere. Credo di poter affermare che ogni canzone ha scritto quella successiva e -forse- il legante di questo disco sta proprio in questo: sono fatte della stessa fame. Prima che a disegnare i suoni ho cominciato a fare attenzione al soggetto, che è fatto di armonie e struttura. Il mio attuale processo creativo -se ne esiste uno, considerando che cambia di brano in brano- è molto diverso e funziona al contrario: parto da una scena che ho in testa, delle parole, un registro vocale sul quale voglio provare a cantare.

Seguono gli accordi e procedo con arrangiamento e pre-produzione solo quando il brano funziona già con solo chitarra e voce. Qualche volta, ho anche trovato una canzone in uno strumento, ma questa è un’altra storia e mi sembra di stare andando già abbastanza lungo.

Ho ascoltato il tuo album tutto d’un fiato, come se mi stessi approcciando alla lettura di un’opera che non si esaurisce nell’arco di una singola pagina, piuttosto una serie di racconti, tutti intimamente legati da un sottile fil rouge. La complessa personalità dell’io narrante si articola in atteggiamenti disparati – talvolta in contraddizione tra loro – fino a generare dei veri e propri paradossi che, alla fine dell’album, risultano essere perfettamente coerenti. La mia sensazione è che a cantare non sia un unico io, bensì una moltitudine di personalità, eterogenee, ma strettamente interconnesse…

L’ascolto del disco come fosse la lettura di un libro è un approccio che adoro e che -a mia volta- cerco di adottare ogni volta che l’album lo concede. Non è sempre possibile e questo dipende proprio dall’architettura del disco che si ha davanti: è un’idea che ho acquisito solo di recente. Per questo lavoro mi sono mosso opportunamente per imprimere al disco questa caratteristica nascosta. In effetti, “Ahahah” è una serie di racconti.

Pensa che quando ero in cerca di un titolo stavo rischiando di scomodare Boccaccio per tutta una serie di ragioni: questo disco non si chiama “Dodecameron” solo perché poi è arrivata “Ahahah” (la canzone), che ha cambiato tutte le carte in tavola.

Ma poi, t’immagini? Il Dodecameron di De Relitti: una serie di canzoni scritte in dodici giorni, durante il Morbo del 2020. Lasciamo perdere. Quanto alle personalità e ai paradossi, un amico che conosce bene la mia musica “precedente”, nell’ascoltare le primissime versioni dei brani del disco, mi ha detto una cosa che mi ha dato da riflettere per mesi. Vedi? Un sacco di riflessioni, in questo disco.

“Tu sei un tipo un sacco ironico”, mi ha detto. “E questa tua ironia la sento solo ora, nelle tue canzoni. Nella roba che facevi prima, era come se la tenessi nascosta”. Probabilmente non lo saprà mai, ma così facendo ha aperto il vaso di Pandora delle mie sfumature autorali: mi ha definitivamente spinto ad esplorare anche le altre cose che sono. Quindi non parlerei di una moltitudine in termini di personalità, quanto di sfaccettature. E poi, a dirla tutta, è la prima volta -in tanti anni- che mi sento così Uno: spesso “contenere moltitudini” si converte in tanti micromovimenti che non sono corali, si va in tante direzioni diversi, ma ci si muove davvero poco.

Questo disco, tra le cose, sembra una dichiarazione d’intenti e lo stesso titolo nasconde una sorta di patto col lettore, per tornare sulla letteratura. C’è solo una cosa che non hai reso esplicita, forse per scaramanzia: cosa ti aspetti per questo disco?

Vorrei solo che diventasse il segreto più bello dell’indie italiano.

a cura di
Donato Carmine Gioiosa

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