Basilio Petruzza: “Scrivo altrimenti non sarei vivo”

Basilio Petruzza: “Scrivo altrimenti non sarei vivo”
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Esistiamo per non perderci” è il nuovo libro di Basilio Petruzza: scrive da quando ha imparato a tenere la penna dritta sul foglio, è uno scrittore ormai già da un po’, e noi in concomitanza con la sua ultima pubblicazione non potevamo che ospitarlo su The Soundcheck.

Esistiamo per non perderci” è la storia di una crescita, dell’accettazione di sé e in modo particolare la normalizzazione della paura; un sentimento questo spesso esecrato da tutti, perché abituati che la sofferenza e ciò che ci incute timore deve essere eliminato, non rendendoci conto invece che con la negazione non si fa altro che costruire la propria vita sulle macerie dei propri traumi.

Ma lasciamo che sia Basilio stesso a parlarci meglio del suo romanzo!

Ciao Basilio, benvenuto! “Esistiamo per non perderci” è la tua ultima creazione, ti va di presentarci brevemente le caratteristiche di questo tuo nuovo libro, partendo proprio dal titolo?

C’è una frase, all’interno del libro, che dice «Esistiamo per non perderci significa che la vita può finire, ma non può trascinarci con sé». Quello che racconto, infatti, è un bene che supera la vita stessa. È la storia di un amore che va oltre il corpo, la carne e il possesso, è la storia di Marcello e Barbara, due ragazzi che imparano in fretta a diventare l’uno custode del dolore dell’altra.
Si annusano, si riconoscono, si tengono per mano quando la vita li mette davanti a un fatto inaspettato, la gravidanza di Barbara. Quando sua figlia viene al mondo, lei muore, così a Marcello resta il compito complesso ma determinante di aiutarla a non recriminare. Il libro inizia così, poi è un viaggio introspettivo che si conclude con una consapevolezza: la verità ci libera e il dolore non è mai una meta, ma sempre un mezzo.

Tra le tematiche narrate nel libro troviamo quelle della crescita, dell’accettazione di sé, che diventa forse più difficile per chi deve ricevere “l’approvazione” del proprio orientamento sessuale da parte di una famiglia e di una società fortemente tabuizzata. Che messaggio lanci a tutte quelle persone che ancora non riescono a trovare la forza di farsi accettare per chi si è?

Marcello, il protagonista di Esistiamo per non perderci, è gay. In un passaggio del libro, durante un flashback, ricorda un aneddoto: era adolescente, sentiva la necessità di raccontarsi a suo padre, ma poi non lo fa per non dargli un dispiacere. In lui c’è il dolore lancinante di chi si sente difettoso, un puzzle senza un pezzo.

Da ragazzino, si sbraccia perché qualcuno si accorga di lui, del suo malessere, ma i suoi genitori non sanno prendersi cura nemmeno di sé stessi, hanno trascurato la loro infelicità a tal punto da esserne diventati vittime, come possono accorgersi di lui? Così, col tempo e non senza fatica, impara la lezione più complicata: nessuno di noi è soltanto quello che ha subito, siamo anche e soprattutto quello che impariamo a volere.

E così, ad un certo punto, lui impara a volere il proprio bene. Nessuno ha bisogno dell’accettazione di qualcun altro, abbiamo soltanto bisogno di esistere nella nostra forma più autentica. Marcello lo impara a fatica, ma ci riesce.

Esistiamo per non perderci, Basilio Petruzza
Il libro si chiude con un messaggio di speranza oppure la narrazione viene lasciata aperta per cui libera all’interpretazione del lettore?

Tutto il libro è fatto di speranza, una speranza concreta e sofferta, che costa un prezzo da pagare. Luce, la figlia di Barbara, è quella speranza: il suo nome è il suo destino e il suo posto nel mondo è accanto a chi trova il coraggio di non avere paura della verità.

Una delle paure più grandi che l’uomo ha è quella di avere paura: è un sentimento in cui ti rispecchi anche tu?

Sì, per questo scrivo, per non restare alla superficie delle cose, per allenare la paura, affinché diventi un impulso e non un ostacolo. Per lo stesso motivo, vado in analisi: alleno la mia testa a guardare l’ostacolo come un’opportunità. “Esistiamo per non perderci”, ad esempio, mi ha aiutato a superare la paura più grande: quella di mettermi a nudo.

Io ho sempre raccontato me stesso attraverso i miei libri, ma ogni volta mi sono nascosto dietro storie di vita che non mi appartenevano. Nemmeno questa mi appartiene, non è un romanzo autobiografico, sia chiaro, ma stavolta più che mai sento di essermi spogliato di tante cose, tra cui – appunto – la paura di aver paura.

Ormai sei alla soglia del tuo quinto libro: quanto ti insegnano i libri che scrivi?

Tanto, perché mi mettono di fronte alla verità, che spesso è dolorosa, disordinata e snervante, ma è pur sempre verità. E, in quanto tale, presto o tardi bisogna farci i conti. Mi insegnano a prendermi cura del bambino che sono stato, portano alla luce i malesseri che ho provato e mi consegnano, pagina dopo pagina, un pezzo di futuro alla volta. Io devo tutto ai libri che ho scritto perché mi hanno insegnato a diventare adulto.

Qual è stato il momento in cui hai deciso che era il momento di trasformare la tua scrittura (magari intimista) in qualcosa che potessero leggere in molti?

Non ricordo quel momento, non credo che ci sia stato. Io ho sempre scritto, ho iniziato quando ho imparato e non ho mai smesso. Il mio primo romanzo risale a quando avevo undici anni, ero ancora un bambino, non avevo la più pallida idea di cosa significasse fare lo scrittore, ma sapevo di voler scrivere.

Forse la bellezza è tutta qui, nell’aver sempre fatto quello che amo senza chiedermi cosa fosse. Era la mia vita, è la mia vita, lo faccio perché altrimenti non sarei vivo.

a cura di
Ilaria Rapa

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Ilaria Rapa

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