I Kings of Leon, il bello e il brutto del non cambiare mai

I Kings of Leon, il bello e il brutto del non cambiare mai
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I re avevano abdicato da un po’. Erano spariti dai radar per quasi cinque anni, dopo un album, Walls, che nulla aveva tolto e nulla aveva aggiunto a una carriera che già non si distingueva per il numero di scossoni stilistici vissuti.

Il ritorno dell’allegra famigliola Followill però non sembra risentire di un silenzio così lungo, e nemmeno sembra aver assimilato svariati anni di evoluzione del genere. Tutt’intorno i suoni si sono fatti più riverberati e solari, come quelli dei War on Drugs, o più notturni e suadenti, come quelli dei Cigarettes after Sex. Oppure semplicemente più ignoranti e pestati, come quelli dei Royal Blood.

La copertina dell’album. Già da qui si spiegano molte cose
E invece…

E invece no, i Kings of Leon sono i Kings of Leon di sempre. Caleb Followill biascica testi sempre più personali e sentimentalmente malandati aprendo solo metà della bocca, mentre le chitarre attorno sembrano creare atmosfere da live club piccolo dove la gente se ne fotte e fuma.

When You See Yourself potrebbe avere in copertina le palme di Come Around Sundown, lo stesso filtro di Instagram con le righette. È un bene, senza ombra di dubbio, quando le sonorità tornano ad essere melliflue, malinconiche e asciutte come nel picco della carriera Only By The Night.

È un male, seppur non troppo drammatico, quando ci si rende conto che la palette cromatica utilizzata è però ancor più ridotta che in passato, ingrigita dagli anni. Il tutto penalizzato anche da un mix che per qualche strano motivo mette gli effetti delle chitarre in primissimo piano, sovrastando le linee vocali che, a parte un centinaio di “You do” su 100,000 People e l’inutilità di Supermarket, sono in realtà molto convincenti.

Il tempo sembra non passare mai per loro
Il tempo passa, ma i Kings Of Leon se ne sbattono

When You See Yourself dei Kings Of Leon fondamentalmente è un disco tanto onesto quanto prevedibile: ha dei picchi evidenti come il singolo The Bandit, l’apertura estremamente atmosferica e vagamente elettronica (che mette in luce la dichiarata nuova ossessione del chitarrista Matthew Followill per i sintatizzatori d’epoca) di When You See Yourself, Are You Far Away, il personale e delicato mid-tempo di Time in Disguise.

Tutto il resto – e la sensazione rimane fortissima anche moltiplicando gli ascolti – scorre via piacevole, rassicurante, e invariabilmente dimenticabile.

L’highlight: “Time in Disguise”
Per chi apprezza: Le sicurezze

a cura di
Riccardo Coppola

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