All’Inalpi Arena di Torino, il 20 dicembre 2025, Marracash ha chiuso il suo Marra Palazzi25 trasformando il palazzetto in un labirinto emotivo, più vicino a un film che a un semplice live. Le canzoni sono diventate scene, gli interludi veri e propri cambi di set, con i robot e i visual a fare da controcampo alla voce di Marracash, mai così sicura e vulnerabile allo stesso tempo
All’Inalpi Arena di Torino, il 20 dicembre 2025, Marracash non ha solo chiuso un tour: ha aperto un processo pubblico alla città e al potere, usando le canzoni come capitoli di un film giudiziario girato in tempo reale.
“È importante far sentire il nostro potere alla gente di potere”, dice a un certo punto, evocando lo sgombero torinese dei giorni precedenti come una scena madre che nessuno aveva chiesto ma che tutti si sono ritrovati a recitare.
L’Intro + power slap è il cartello iniziale: luci fredde, suono secco, un montaggio rapido che mette subito lo spettatore nella posizione scomoda di chi sa che non assisterà a un feel good movie.
Con Gli sbandati hanno perso, Vittima e Body parts, la narrazione prende la forma di un’indagine sui corpi e sui margini, come se la camera seguisse in piano sequenza i volti degli esclusi, quelli che negli sgomberi si vedono solo di sfuggita, dietro i cordoni di sicurezza.
In Bastavano le briciole e 15 piani il palazzetto diventa un condominio emotivo, pieno di scale che non portano da nessuna parte, mentre Factotum, Laurea ad honorem e Pentothal disegnano il profilo di un protagonista lucido fino alla crudeltà, deciso a non farsi assolvere dal pubblico.
La parte centrale del “film” è tutta interiore: con Io, Dubbi, L’anima, Nemesi e Qualcosa in cui credere, Marracash sposta l’azione dal quartiere al diaframma, trasformando l’arena in una sala di montaggio dove pensieri e contraddizioni vengono tagliati, riattaccati, messi in loop.

Una magia tra visual e robot
Qui la frase sul potere esplode come un fermo immagine: la musica si fa campo lungo, la politica entra in scena senza bisogno di slogan, solo con il peso di quelle parole che rimbalzano sulle gradinate come un’eco da aula consiliare.
Crash, Loro, Cosplayer, Poco di buono ed È finita la pace funzionano allora come una lunga sequenza di inseguimenti: il protagonista rincorre le proprie maschere, il pubblico rincorre il senso, la città rincorre se stessa.
Nel blocco finale il concerto si concede la struttura del melodramma, ma senza anestetizzarlo. Crazy love, Crudelia, Niente canzoni d’amore e Lei sono i capitoli di una storia sentimentale che si frantuma sotto il peso del contesto, come se ogni rapporto fosse inevitabilmente contaminato dai rapporti di forza sociali.
Quando entrano Nulla accade e Love con Guè, il tono è quello del confronto tra co–protagonisti che condividono lo stesso universo narrativo, due voci che si guardano come in un dialogo scritto da un unico sceneggiatore.
Il finto ossimoro di Happy end prepara l’ultima dissolvenza: 64 bars di paura come titoli di coda, un monologo interno senza musica che continua a scorrere anche quando le luci si riaccendono, lasciando allo spettatore la sensazione di essere appena uscito da un film che, là fuori, non ha nessuna intenzione di finire.
La scaletta:
- Intro + power slap
- Gli sbandati hanno perso
- Vittima
- Salvador Dalì / sport
- Goat
- Body parts
- Bastavano le briciole
- 15 piani
- Factotum
- Laurea ad honorem
- Pentothal
- Io
- Dubbi
- L’anima
- Nemesi
- Qualcosa in cui credere
- Crash
- Loro
- Cosplayer
- Poco di buono
- È finita la pace
- Crazy love
- Crudelia
- Niente canzoni d’amore
- Lei
- Bravi a cadere
- Nulla accade – guest Guè
- Love – guest Guè
- Happy end
- 64 bars di paura
a cura e foto di
Andrea Munaretto
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