Oggi abbiamo ospitato il cantautore spezzino APICE con un’intervista insolita e particolare.
Siamo partiti dal suo nuovo album, “Rumore Bianco”, pubblicato per La Clinica Dischi il 26 gennaio, per affrontare delle tematiche molto vicine al mondo della musica, ovvero l’attuale modo di produzione musicale, la critica e, perché no, anche le performance dal vivo.
In una società dell’apparenza dove tutto sembra essere finalizzato solo a intascare l’effimero consenso del prossimo, abbiamo chiesto all’autore il suo punto di vista. Ci siamo dunque lasciate ispirare dal suo “Rumore Bianco” che racconta di APICE il “disordine personale e, di conseguenza, il disordine del mio tempo”.
Sei al tuo terzo disco: un album che sappiamo essere stato collaborativo in maniera quasi del tutto insolita. I nomi dei musicisti che hanno preso parte al tuo “Rumore Bianco” non si contano sulle dita di due mani. Una scelta quasi controtendenza per la produzione musicale attuale. Siamo un Paese che ha bisogno di educazione musicale?
Beh, quella farebbe certamente bene. Abbiamo bisogno di tante ri-educazioni, a partire da quella “emotiva”. Anche se devo dirti che trovo sia un termine davvero impegnativo, “educazione”: mi ha fatto sempre pensare a qualcosa di imposto, anche quando virtuoso. Però nell’era del dilagante relativismo, che alla fine tutto legittima e niente considera necessario, potrebbe farci bene, imporci qualcosa di… educato. Se poi fosse qualcosa di “educato al bello”… potrebbe migliorare le nostre vite, aiutarci a riconoscere e a non accettare più tanta bruttura che ci circonda.
Senza cadere, per una volta, nella trappola del relativismo de-responsabilizzante!
Da cantautore, quanto è importante, per te, oggi, il giudizio della critica musicale? Pensi che i feedback dei giornalisti/redattori contemporanei abbiano un peso, influiscano in qualche modo sulla tua scrittura e su quella dei tuoi colleghi?
Sulla mia scrittura credo e spero di no, su quella di altri non so risponderti. In passato, forse, può essere successo: arrivato al terzo disco, tendo a farmi “spostare” solo da chi conosco, o da chi so che ascolta prima di scrivere – che, paradossalmente, non è cosa scontata. Oggi è difficile riuscirsi ad orientare nel mondo della comunicazione musicale, a volte leggo parole che mi fanno chiedere se chi sta scrivendo della mia musica la abbia davvero ascoltata, oppure se ne scrive solo per far contento l’ufficio stampa che pago, magari in cambio di qualche accredito al prossimo concerto del divo di turno… E così non va bene, tutto perde di significato e si trasforma in marchetta, tra l’altro a bassissimo guadagno per chi la fa.
Mi sembra anche che tutto questo carnevale si consumi sulle spalle degli emergenti, che spesso sono costretti (o peggio ancora, disposti) a “pagare” lo spazio di un’inserzione che non sposterà nulla (o quasi nulla) in termini di visibilità… gli sconosciuti rimangono sconosciuti ma ancora più poveri, mentre i “big” si vedono stendere tappeti rossi sui quali strascinano i pesi dorati delle loro tasche accompagnati da redattori poco avvezzi al contraddittorio e ben disposti ad amplificare il pensiero unico.
È un discorso complesso… e comunque non ci ho ancora capito molto.
Secondo te, le scelte dei distributori quanto influiscono sul successo di un artista?
Sul successo virtuale parecchio, sul successo reale e organico credo sia ancora necessario fare un buon disco. Per fare gli streams, no: basta un buon distributore. Per far venire la gente ai tuoi concerti e farla uscire contenta e pronta a ritornare, bisogna realizzare un buon lavoro e saperlo suonare bene.
Molti locali, soprattutto in quelli che fino a poco tempo fa erano i punti nevralgici dell’underground italiano, si stanno aprendo sempre di più ad altre forme d’arte come la stand up comedy. È evidente che spettacoli del genere agevolino economicamente i proprietari dei locali; ma questo fenomeno è accompagnato anche da una disaffezione da parte del pubblico alla musica dal vivo?
No, non credo… E non credo nemmeno che la stand-up sia così più “economicamente” vantaggiosa per un gestore: certo, se sei abituato a sottopagare gli artisti, non cambierà di certo il tuo trattamento a seconda del linguaggio praticato.
In generale, è giusto che chiunque salga su un palco sia pagato, gli open-mic sono certamente iniziative coinvolgenti ma alla fine levano credibilità alla professione per dare all’amatore la possibilità di sentirsi ripagato da venti minuti di riflettore… ed è ovvio che questo meccanismo possa poi portare il gestore a preferire spendere zero organizzando solo open-mic che chiamando, a pagamento, un artista professionista.
In più, chiamare un artista significa scommetterci sopra, mentre con gli open-mic non rischi nulla e il più delle volte ci guadagni il quadruplo perché ogni amatore si porta gli amici ad applaudirlo. E questo poi magari legittima pure il gestore a rinfacciare all’artista di “non portare abbastanza pubblico”… Anche la musica dal vivo è stata risucchiata negli anni in questa dinamica, ma con un’aggravante: nel momento in cui è esploso il fenomeno “indie-mainstream”, le agenzie di booking hanno collaborato allo sfacelo facendo a gara per vendere al prezzo più alto possibile concerti di fenomeni virtuali privi di qualsivoglia capacità di stare su palco; le casse dei locali, credendo nel “effetto playlist”, hanno foraggiato cachet esorbitanti e alzato i costi di biglietti che il pubblico ha pagato per poi trovarsi ad assistere a spettacoli imbarazzanti.
Risultato? Quella disaffezione della quale parli tu, e un crescente e diffuso disinteresse del pubblico italiano nei confronti dei prodotti italiani: piuttosto, do fiducia ad un artista straniero. E la qualità, che in Italia esiste eccome, continua a rimanere ai margini e a non trovare spazio: i club che fino a ieri erano monopolizzati da agenzie senza scrupoli e artisti mediocri, oggi danno spazio preferibilmente a progetti stranieri… quando ancora non hanno esaurito del tutto il loro budget e la loro fiducia nella musica investendo sul peggio della proposta nazionale.
E anche qui, finiamo col raccogliere i disastrosi effetti del pensiero unico alimentato da chi dovrebbe difendere e assicurare la pluralità delle proposte…
Gli articoli musicali negli ultimi dieci anni appaiono molto più docili e “buonisti” rispetto a quelli pubblicato tra gli anni ’90 e i primi anni del 2000; a cosa è dovuto, secondo te, questo cambiamento?
Non lo so, non ho abbastanza conoscenza della storia del giornalismo musicale italiano per fare un confronto. Mi sembra tuttavia esserci stato un tempo in cui critica e urgenza socio-politica hanno convissuto scambiandosi parole dal sapore rivoluzionario; così, una recensione non era solo una recensione, ma una dichiarazione di guerra ad un certo sistema, ad un certo impero mentale. Oggi siamo tutti sudditi di un padrone che è sempre lo stesso, ma che fa finta di essere uno di noi. Allora c’era l’indipendenza, oggi c’è l’indie. Sono due cose diverse…
Abbiamo da poco perso uno dei critici che hanno fatto la storia del giornalismo musicale, parliamo di Assante. E poi abbiamo dall’altro lato chi si reinventa scrittore, giornalista e pubblicista di musica: è davvero un mestiere che tutti in un certo senso possono provare a “indossare” in un certo senso?
Per quella che è l’utilità e la credibilità richiesta e restituita dalla stampa musicale di oggi… direi di sì. È un tipo di lavoro che ha subìto una vera e propria perdita dell’aureola, come anche il “lavoro” dell’artista. Può farlo e lo fa chiunque. Compreso il sottoscritto: dimostrazione empirica più efficace non potevamo trovarla!
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a cura di
Ilaria Rapa e
Lucia Tamburello