“In Limine Mortis” di Consuelo Pinna, una riflessione sulla morte

“In Limine Mortis” di Consuelo Pinna, una riflessione sulla morte
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La morte come lente d’ingrandimento per vedere più nitidamente la vita

C’è qualcosa che ci sfugge, nella vita e nella morte, che ci trasciniamo dietro quotidianamente.

Dinamiche familiari e relazionali, rapporti umani che andrebbero rivisti, dettagli che potrebbero rivelarci moltissimo dello stato d’animo reale di chi ci circonda. E che, nonostante tutto, scegliamo consapevolmente di ignorare.

Troppo presi da noi stessi, o da ciò che, ciecamente, riteniamo essere noi stessi.

E che in realtà è solo altro da noi. E’ solo tran-tran quotidiano. Ritmo travolgente, come quello di un’antica danza orgiastica, cui ci abbandoniamo senza opporre resistenza. Forse perché lasciarsi cullare da qualcosa di sincopato e già scandito è di gran lunga più semplice. Soluzione decisamente più facile e indolore, rispetto a una presa di coscienza attiva dei propri limiti, delle proprie aspirazioni e del proprio posto nel mondo.

Ed ecco che, quando Elisabetta, nel bel mezzo di una passeggiata meditativa inserita in un percorso di autoterapia intrapreso dopo la fine di una relazione burrascosa, ha un arresto cardiaco e muore, tutto cambia.

Perché mentre il suo corpo, esangue, giace alla mercé di soccorritori, medici e impresari delle pompe funebri, il suo spirito resta vigile, presente a se stesso, spettatore sgomento e impotente di fronte a tutte le conseguenze derivanti dalla sua dipartita fisica.

Lo strazio dei genitori, il palesarsi, in tutta la sua invalicabilità, di un muro di silenzio dietro il quale si trincerano il fratello e la sorella di Elisabetta.

Le reazioni degli amici di tutta la vita, capaci di svelare, con crudezza, in un attimo, quanto davvero conoscessero e amassero la ragazza defunta, quanto realmente fossero consapevoli dei suoi gusti, dei suoi sogni e desideri.

Il cadere, progressivo e inarrestabile, delle maschere di tutti coloro che hanno circondato, in vita, Elisabetta. La capacità di quest’ultima, da morta, di scorgere e riconoscere, dietro ciascuna di quelle maschere, volti, anime, aspirazioni, piccole ipocrisie e sofferenze.

E’ un viaggio, quello nel quale Consuelo Pinna ci accompagna tenendoci per mano, straziante, ma dolcissimo.

Autentica epifania del senso più profondo dell’esistenza.

Monito, pieno di sensibilità e grazia, ad assaporarne ogni istante, a viverla in maniera attenta e consapevole, a dedicare la giusta attenzione a noi stessi e agli altri.

Il pensiero della morte ci mette di fronte a interrogativi senza risposta, a riflessioni sibilline che ci danno una contezza impietosa della nostra natura effimera.

“Sono stesa lì dentro. Pallida. Senza i miei adorati, imprescindibili, occhiali. Dove sono? Perché non li indosso? Vedrò sfocato per tutta l’eternità? Niente scarpe da ginnastica. Niente infradito. Tutti eleganti, al cospetto di Dio. Altro che voto di povertà, semplicità! Arriviamo tutte a passo di modella. Avrei preferito una capsula biodegradabile, sarebbe stato meglio se fossi diventata concime per terreni fertili, un germe per una vita nuova. Nasciamo nudi: perché non ci riconoscono la stessa condizione nella morte?”

E poi, la conclusione, sorprendente e inattesa, che rivela la reale natura del percorso intrapreso da Elisabetta.

Quella che i greci avrebbero definito un aprosdòketon, una conclusione imprevista, che lascia di stucco.

Ma non delude. Tutt’altro.

Piuttosto, rafforza nel lettore la consapevolezza di aver percorso una sorta di cammino iniziatico.

Una discesa in un Ade silenzioso, ma capace di gridare alle orecchie di chiunque sia disposto ad ascoltarlo, una sconvolgente, ma confortante verità.

Che la Morte è parte integrante della vita.

E, forse, la chiave migliore di cui disponiamo per riuscire nell’esegesi della nostra esistenza.

a cura di
Romina Russo

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