L’orto americano è il ritorno al gotico padano per il maestro Pupi Avati con protagonisti Filippo Scotti, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Rita Tushingham e Morena Gentile. Il film è tratto dall’omonimo libro scritto dallo stesso Avati. Presentato in anteprima all’81° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia come film di chiusura, uscirà in sala il 6 Marzo distribuito da 01 Distribution.
L’orto americano è il nuovo film del maestro Pupi Avati, che segna il suo ritorno all’horror dopo Il signor Diavolo uscito nel 2019. Ricordando il suo film cult La casa dalle finestre che ridono (1976), con L’orto americano il regista decide di ridare nuova linfa al “gotico padano”, particolare “sottogenere” da lui creato che utilizza la bassa padana, con le sue sperdute campagne, come teatro di storie dell’orrore.
Trama
La storia è ambientata durante i tempi della Liberazione. Il protagonista (Filippo Scotti) è un giovane scrittore (non verrà mai rivelato il suo nome): un giorno, dal barbiere, incrocerà la sguardo di una bellissima infermiera dell’esercito statunitense di nome Barbara (Mildred Gustafsson), innamorandosene all’istante. Un anno dopo, trasferitosi in America per scrivere un nuovo romanzo, si ritroverà ad abitare nell’abitazione contigua a quella della sua amata, scoprendo dalla madre (Rita Tushingham), che la ragazza non ha mai fatto ritorno a casa dall’Italia e si pensa possa essere persino morta.
Il nostro protagonista, deciderà così di ritornare in Italia, più precisamente nelle zone rurali di Ferrara, dove sta per aver inizio un processo ai danni di un uomo di nome Glauco (Armando De Ceccon) accusato di aver brutalmente ucciso tre donne. Barbara è un’altra vittima non riconosciuta di questo serial killer? O è ancora viva da qualche parte?

Il maestro Avati firma un nuovo gotico padano, con due inedite peculiarità, l’uso del bianco e nero e l’uso, nella prima parte di film, delle zone rurali dell’America, creando un atipica similitudine con le campagne tipiche della nostra pianura padana.
“Ancora una volta affrontiamo il genere ‘gotico’, in questo caso non solo confermando quei luoghi della nostra regione che sono risultati così significativi, ma allargandoci per la prima parte del racconto a quell’America rurale che è deltutto simile alla nostra Emilia-Romagna”
Il regista Pupi Avati
La bellissima estetica del film
Senza dubbio, la scelta di usare una fotografia in bianco e nero si è rivelata la mossa più efficace di tutto il film. Grazie ad essa l’identità gotica delle pellicola viene ancor più esaltata, aumentando il senso d’inquietudine che le isolate campagne padane riescono già da sole a generare. Scelta saggia anche ambientare il film nel 1946, con un’Italia che deve ancora iniziare a rinascere dalla distruzione generata dalla seconda guerra mondiale.

Il bianco e nero del film incrementa anche l’estetica “povera e distrutta” che un paese bombardato e le sue persone si ritrovano ad avere. Per finire, questa fotografia così sporca riesce anche ad essere impattante nelle scene (per quanto siano poche) più crude della pellicola, rendendole molto più brutali di quanto una fotografia a colori possa fare.
“Un racconto “gotico” che si svolge al concludersi della seconda guerra mondiale vissuta sia nella provincia americana che nel Polesine, dove il ritrovamento di cadaveri di americani o inglesi rappresentò una lucrosa attività. E poi la scoperta del bianco e nero, di quello autentico. Il comparare l’immagine reale che avevamo composto con la stessa immagine in b\n che si appalesava sul monitor mi produceva sempre un brivido, un momento di orgoglio infantile. Non stavamo girando un film, finalmente stavamo facendo il cinema!”
Pupi Avati
Le interpretazioni dei personaggi
Le interpretazioni sono quasi tutte di alto livello. Ogni attore riesce ad incastrarsi nella storia lasciando il segno, indipendentemente dalla rilevanza, narrativa e di screentime, che il suo personaggio apporta alle vicende narrate. A partire da Doris (Chiara Caselli) la proprietaria della pensione dove albergherà il protagonista, Morena Gentile con la sua Arianna, sorella di Barbara e Armando De Ceccon con il misterioso e presunto serial killer Glauco.
Al di sopra di tutti, le interpretazioni di Rita Tushingham e Roberto De Francesco, rispettivamente madre di Barbara e fratello di Glauco. I due mettono in scena una recitazione di grandissima intensità, risultando i due ruoli che lasciano di più il segno della pellicola.
“Non c’è stata una sola scena in cui non fosse stata necessaria una concentrazione emotiva fortissima, non c’è stato mai un “picco” particolare di tensione ma tutta una serie continua di emozioni diverse, molto distillate e concentrate.”
Roberto De Francesco
A risultare, però, il meno convincente di tutti, è proprio il protagonista, interpretato dal giovane Filippo Scotti. Il suo personaggio è di base un sognatore con, senza fare spoiler, abitudini e passato molto particolari. Il giovane attore non riesce a rendere al meglio l’essere “peculiare” del suo ruolo, riportando sullo schermo un personaggio con pochissima espressività o anche un minimo d’intensità.

La sceneggiatura
Nonostante l’interessante incipit e la prima parte di storia, ambientata in America, di buon livello, il film presenta una sceneggiatura fin troppo lineare con pochissimi guizzi o intrecci interessanti nella seconda parte. Il protagonista nonostante la volontà di cercare la sua amata, si rivela molto spesso trascinato dagli eventi piuttosto che essere parte attiva della sua personale indagine.
Sono anche presenti, sia nelle piccole che nelle grandi situazioni, delle ingenuità che possono essere correlate ai comportamenti dei personaggi o al loro modo di affrontare determinate scelte. Proprio per questo difetto, il film, ad un certo punto, è come se ti urlasse in faccia la soluzione del mistero dieci minuti prima di quella che sarebbe dovuta essere la sua effettiva rivelazione.

Il film è debole anche nel creare tensione. Per quanto sia più vicino al giallo e al thriller come genere, non disdegna elementi che possono essere considerati horror, ma questi, soprattutto se abituati a vedere queste tipologie di film, sono fin troppo classici. Ironicamente la scena più forte e d’impatto del film, capace di riuscire a dare anche un certo fastidio allo stomaco, è un sogno del protagonista, non importante quindi ai fini della storia in sé.
In conclusione
L’orto americano si può considerare un film più che sufficiente, con un’estetica e una regia eccezionali accompagnati però da una storia fin troppo classica e raccontata con pochi guizzi. Merita sicuramente una visione perché è innegabile la bravura registica di Pupi Avati ed è ammirevole il suo amore e la sua voglia di mettersi in gioco a 86 anni, con un genere che ha caratterizzato i primi anni di carriera.
Sarà un film sicuramente amato dai fan più accaniti del regista, che riesce perlomeno nel suo scopo primario: dare nuova linfa al gotico padano, per quanto non raggiunga minimamente il suo capolavoro La casa dalle finestre che ridono. Per tutti gli altri spettatori, la pellicola sarà il tipico esempio di “bella forma, ma contenuto nella media”.

Il film verrà distribuito nelle sale italiane a partire dal 6 marzo con la distribuzione di 01 Distribution.
a cura di
Andrea Rizzuto
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