Petrina: quando cercare è necessario, smarrirsi diventa inevitabile

Petrina: quando cercare è necessario, smarrirsi diventa inevitabile
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Quando un’artista, nel bel mezzo di una pandemia mondiale, si ritrova segregata in casa da sola – senza timore del foglio bianco – il risultato può essere sconvolgente, a tratti rivelatorio. Nasce così L’Età del Disordine, il nuovo album di Debora Petrina, in arte Petrina, pubblicato lo scorso 14 ottobre per l’etichetta Alter Erebus e realizzato insieme a Marco Fasolo (Jennifer Gentle, I Hate My Village).

Cantautrice, compositrice, pianista – nonché scrittrice – veneta, Petrina è un’artista a 360 gradi e, con questo nuovo lavoro, si mette a nudo e guarda la sua immagine allo specchio, avendo cura di rompere vetri e pregiudizi in mille pezzi minuscoli per poi mettere ordine e ritrovarsi: quando cercare è necessario, smarrirsi diventa inevitabile.

Noi di The Soundcheck l’abbiamo intervistata. Nessuna pretesa di mettere ordine al suo disordine se non la sorpresa di scoprire qualcosa di straordinario nell’ordinario. E così è stato.

L’INTERVISTA
L’Età del Disordine è il tuo quinto album nonché il primo lavoro in italiano. Ci racconti come è avvenuta questa scelta di realizzare un intero disco in italiano?

In realtà è il mio sesto (dovrò segnalarlo scherzosamente al tuo ufficio stampa, nda)! Il primo settembre è uscito un album per la newyorkese zOaR Records, NuovoMondo Symphonies, concepito e scritto insieme ad un altro compositore, Giovanni Mancuso. Un album fra pop e avanguardia, dove suono il piano e canto in lingue inventate da me.

Entrambi gli album hanno preso forma durante questi ultimi due anni difficili. L’Età del Disordine, in particolare, esce da una grande introspezione e urgenza comunicativa che mi ha spinto ad elaborare canzoni nella mia lingua, andando dritto al cuore delle parole.

Un disco concepito in casa. Tutto ok con i vicini? Hai portato anche loro nel tuo percorso introspettivo?

No, non tutto ok! Coi vicini ci sono sempre problemi, anche se oramai vivo qui da molti anni. Purtroppo essere un’artista, femmina, vivere in modo non convenzionale, non essere calata nel ruolo consueto di madre e di donna con un lavoro “normale”, non facilita le cose.

I vicini li ho portati con me nei miei scritti (ho scritto davvero tanto in questi anni), dunque sì, anche loro fanno parte del processo creativo!

Com’è stato lavorare con Marco Fasolo? Ci racconti un aneddoto in esclusiva per i lettori di The Soundcheck?

Marco è un musicista geniale, fuori da ogni canone. Lo è anche come essere umano. Abbiamo passato un mese qui in casa in un disordine, per l’appunto, estremamente creativo, e ci siamo divertiti parecchio (abbiamo riso tantissimo). Una delle particolarità di Marco è che la sera non cena proprio, dunque non l’ho fatto nemmeno io, per solidarietà! Di aneddoti ce ne sono tanti.

Ad esempio, quando siamo andati a registrare la batteria e le voci ad Argo 16 (un grande locale di Marghera con una sonorità davvero particolare – abbiamo registrato anche l’ambiente), Marco ha dimenticato a casa le cuffie.

Io ero nel panico totale, avendo le ore contate e l’impossibilità di tornare a Padova a prenderle. Marco invece era calmissimo, come sempre. Infatti mezz’ora dopo un ragazzo di Marghera, che lavora al locale, ma che non conoscevamo, è venuto a portarci le sue cuffie. Marco ha una specie di aura magica attorno da cui le persone vengono sedotte, catturate; in poche parole fanno quello che lui vuole!

Un disco di 11 tracce. Ce n’è una alla quale sei più legata?

Difficile da dire. Ognuna è sangue del mio sangue! Ce n’è però una che nel ritornello ha delle parole che non sono mie, e che proprio per questo mi hanno fatto riflettere parecchio (e per questo è nata la canzone): “la negazione della felicità è un brutto vizio che tendo a frequentare”. Si tratta di Era Ieri, che è la canzone preferita di Marco. Lì c’è stato un lavoro molto profondo sui suoni, emotivamente davvero intenso.

Tiziano Terzani scriveva: “finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti”. Quanto è importante conoscersi (e riconoscersi) nel proprio disordine?

È fondamentale perdersi, indubbiamente. Perdere i riferimenti che davamo per certi, scontati, e sui quali ci appoggiavamo. Perderli significa fare i conti da capo con sé stessi, trovare in sé le risorse che non credevamo di avere, scoprirsi differenti da come pensavamo di essere e da come gli altri ci vedevano.

Questo cambiamento può divenire la cosa più importante della nostra vita. Ci fa capire un po’ di più qual è la nostra vera natura, che è quello che dico nello spoken alla fine di Cocktailchemico: “perché la mia natura è scura, pura, dura, la mia natura è un’avventura, lei mi tortura tutta intera, la mia natura è vera”.

Sei un’artistica poliedrica. Qualche anticipazione sul tuo primo libro e sui progetti futuri?

In questi giorni è in stampa un mio libro autoprodotto, con postfazione di Tiziano Scarpa, che ho realizzato come ricompensa per i sostenitori del mio crowdfunding. Ma ce n’è un altro, più ufficiale diciamo, che è nelle mani di un’agenzia letteraria e aspetta il suo momento!

Nel frattempo lavoro ai live dei due dischi usciti, scrivo rime per i miei sostenitori, preparo per loro pacchi e pacchetti con CD, vinili, magliette, partiture e cartoline, macino centinaia di chilometri per andare a fare i concerti (cercando dei metani economicamente sostenibili…), scrivo comunicati, post, mi occupo della promozione e del merchandising, mi tengo buoni i vicini!

a cura di
Edoardo Siliquini

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