C’era una volta a…Hollywood, il capriccio insipido di Tarantino

C’era una volta a…Hollywood, il capriccio insipido di Tarantino
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Per Quentin Tarantino, C’era una Volta a…Hollywood rappresenta la classica donna amata e desiderata da una vita intera, una sorta di dea, praticamente irraggiungibile, che dopo anni e anni di instancabile ed inutile corteggiamento inaspettatamente si concede, cogliendo il nostro del tutto impreparato, emozionato al punto da mancare miseramente l’irripetibile occasione.

Del resto, sin da giovane il regista americano non ha fatto altro che flirtare con il cinema d’un tempo, già quando distribuiva ed ostentava la sua cinefilia con gli amici più stretti o con i clienti del Blockbuster dove lavorava.

Finalmente emancipato, avendo provato al mondo intero il suo valore, eppure al tempo stesso assuefatto, forse stritolato e persino annoiato dai meccanismi di cui si alimenta l’industria cinematografica contemporanea, dopo otto (odiatissimi) lungometraggi, gli “Hateful Eight”, verrebbe da dire, giusto per dare un’ulteriore spruzzatina di metatestualità a quella strepitosa opera d’arte che è la sua stessa vita, il buon Quentin ha deciso di farsi un regalo, di girare, quasi per suo esclusivo diletto, la pellicola che, probabilmente, ha sempre voluto dirigere.

C'era una volta a Hollywood foto

E come qualsiasi uomo di mezz’età che ricorda la sua giovinezza più felice e spensierata di quanto non lo sia realmente stata, ci offre lo spaccato di una Hollywood che ha percepito appena, nel 1969 il regista aveva appena sei anni, ma che sicuramente ha imparato ad apprezzare e a mitizzare nei suoi lunghi studi che lo hanno poi reso un esperto di cinema quasi ossessivo.

Nulla da dire circa la sua capacità di ricostruire i colori, le atmosfere, il feeling che si respirava a Los Angeles sul finire degli Anni 60, cornice entro la quale si muovono Rick Dalton, attore dal passato illustre, ma ormai sull’orlo del baratro, e la sua controfigura nonché amico di lunga data, il rissoso Cliff Booth. Personaggi inventati che servono a Tarantino per mostrarci un’industria del cinema in procinto di cambiare per sempre, schiacciando sotto il suo peso uomini di spettacolo, registi, persino generi ormai in declino, come il western appunto, di cui Rick è un volto piuttosto noto agli appassionati.

L’ambientazione è un ideale crocicchio tra vecchio e nuovo, tra fasullo e storico, perché l’immaginario duo di protagonisti entreranno in rotta di collisione, tra gli altri, con Roman Polansky e la moglie Sharon Tate, nota ai più per essere una delle illustri vittime dei membri della Charles Manson’s Family, comune gestita dall’omonimo criminale che per una manciata di secondi irrompe persino in scena.

Il film, insomma, vuole essere una sorta di tributo, un espediente per raccontare dei “bei tempi andati” e magari, come già accaduto in Bastardi Senza Gloria, per riscrivere la storia, con un pizzico di ironia e gore che regala, sul finale, risate a profusione. Un epilogo certamente spiritoso ed irriverente, che palesa le debolezze di un lungometraggio traballante e poco a fuoco.

Se il postmodernismo tanto caro a Quantin Tarantino si palesa anche in C’era una Volta a…Hollywood in una serie di brillanti citazioni e sottilissimi rimandi, la sagacia dei dialoghi taglienti di un Pulp Fiction qualunque sono un lontanissimo ricordo. Di Caprio e Brad Pitt, grazie alla loro incommensurabile grandezza, salvano il film dal disastro, ma non sono altro che macchiette portate in giro da un regista privo di un piano, di un messaggio, di uno scopo ben preciso.

Persino il coinvolgimento di Polanski e compagna sembra pretestuoso, fine a sé stesso, tanto più alla luce di un finale per nulla drammatico, allegorico, significativo.

C'era una volta a Hollywood foto

La strabiliante fotografia a cui ci ha abituato in tutti questi anni Quentin cela parzialmente le mancanze di questo lungo viaggio a vuoto, parliamo di quasi tre ore di film del resto; l’attenzione per i dettagli e lo strepitoso lavoro di set design ci fa rivivere davanti ai nostri occhi i fasti di quei tempi; le già citate prove mastodontiche di Di Caprio e Pitt, che pur si rifanno a personaggi già incontrati ed interpretati altrove, regalano sorrisi sommessi; ma non basta.

Perché una storia che non porta da nessuna parte ci va benissimo, altrimenti Il Grande Lebowski non sarebbe uno dei film preferiti di chi scrive, ma se viene a mancare l’arguzia, la sagacia, la scaltrezza, ci resta un film magari bello da vedere, ma che per ampi tratti annoia e che, soprattutto, non custodisce alcun messaggio.

Privo del brio a cui il regista ci ha abituati, il postmodernismo di C’era una volta a…Hollywood è fine a sé stesso. Un esercizio di stile, nonché un personalissimo capriccio di Tarantino, certamente piacevole da seguire, ma che inevitabilmente finirà per essere annoverato tra i lavori meno ispirati dell’ex-commesso di Blockbuster con la passione per il cinema d’un tempo. Uno sfavillante ginepraio di citazioni colte e a loro modo divertenti, certo, ma prive di uno scopo e di un senso che trascenda la pura e semplice ostentazione.

a cura di Lorenzo Kobe Fazio

In calce all’articolo, trovate alcuni scatti eseguiti dalla nostra fotografa Emanuela Ranucci in occasione della prima del film di Quentin Tarantino al Festival di Cannes del maggio scorso, un modo come un altro per avvicinarsi ancor di più alla magia di Hollywood.

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