Red Hot Chili Peppers e l’abbuffata non richiesta con “Return of the Dream Canteen”

Red Hot Chili Peppers e l’abbuffata non richiesta con “Return of the Dream Canteen”
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Da quando è tornato John Frusciante, i Red Hot hanno composto vagonate di materiale e registrato uno tsunami di brani. Il dramma si palesa nel momento della scelta: cosa pubblicare? Il dramma si compie nella risposta: tutto

Non bastava il discreto-ma-logorroico ritorno con “Unlimited Love”. I Red Hot Chili Peppers, colti da sfrenato entusiasmo, hanno deciso di pubblicare anche il resto delle registrazioni realizzate da quando John Frusciante è tornato nel gruppo. Ecco dunque “Return of The Dream Canteen”, canzoni che non sono scarti (almeno, nelle parole di Chad Smith), ma che hanno un problema di fondo sostanziale.

Ragioniamo, ragazzi

Il modus operandi dei Red Hot Chili Peppers per creare un album è grossomodo lo stesso da sempre: jam session che piano piano prendono una forma più ragionata. Che partano quasi a caso o da un riff abbozzato da qualcuno dei quatto non più ragazzotti, è sempre un flusso di coscienza che, mano a mano, si concretizza in una struttura canzone più razionale. Così è, così sarà. Bene, benissimo, perché ciò permette di creare brani più genuini e in grande quantità.

Il lato positivo è che con tanto materiale puoi poi organizzarlo, vedere se unire idee da registrazioni diverse, smembrare un brano pensato in un modo all’inizio e poi trasformarlo in tutt’altro grazie a nuove sfumature, nuovi innesti. Il lato negativo è che, con tanto materiale e altrettanto entusiasmo, si rischia di percepire come ottimo tutto ciò che è stato realizzato. Non c’è un momento refrattario tra la composizione, la registrazione e un secondo o terzo ascolto. Non c’è un orecchio esterno che sia in grado di giudicare cosa sia effettivamente pronto per la pubblicazione e cosa, invece, sarebbe meglio accantonare per rifiniro meglio in futuro.

Sembra la copertina di un album degli Ozric Tentacles, il che è un complimento
“Return of the Dream Canteen”: come dire…

L’album si apre con “Tippa My Tongue”, una delle canzoni più brutte che abbiano mai registrato. Non si capisce perché non siano stati fermati. Si salva in parte la ritmica, ma la linea vocale di Anthony Kiedis è davvero fastidiosa. La cosa positiva è abbiamo subito tolto di mezzo il momento peggiore di “Return of the Dream Canteen”. Si procede con ritmi più pacati, come se fosse un reprise di “Stadium Arcadium” con meno pressioni addosso. “Reach Out” è uno dei momenti migliori, richiama vagamente “Emmit Remmus” e “The Velvet Glove”, “Eddie” è un omaggio a Van Halen in cui Frusciante esagera fin troppo con la chitarra (bella per quanto semplice, invece, la linea di basso di Flea).

I problemi iniziano col calo di concentrazione inevitabile che pervade subdolamente l’ascoltatore. Passi il leggero fastidio provocato da “Roulette”, il resto dell’album prosegue placido, piacevole ma ai limiti dell’impalpabile. Il problema di “Return of the Dream Canteen” è proprio questo: alcune buone idee annacquate in 17 brani. Troppi, decisamente troppi. È come un buon amaro da sorseggiare rovinato dal troppo ghiaccio che si è sciolto nel frattempo. Ogni tanto dici “Bella la tromba piazzata qui” (“Handful”), ti accorgi che “The Drummer” è un ottimo pezzo rovinato da un ritornello da telefilm, altre volte ondeggi la testa senza motivo apparente (qualsiasi cosa dal decimo pezzo in poi).

Nulla da dire invece sul lavoro di Ryan Hewitt come ingegnere del suono: è riuscito a valorizzare i punti salienti di questo pur eccessivamente lungo viaggio sonoro. L’album suona bene tanto su CD quanto in versione streaming (non è scontato).

Uno dei momenti migliori dell’album
Però non ti va bene mai niente…

Non è una questione di “ipercriticismo”. È piuttosto il rimando a quanto detto a inizio articolo: non c’è stato nessuno che abbia arginato e consigliato i Red Hot Chili Peppers a dovere. In tal senso, il sottoscritto non capisce quale sia stata l’utilità di Rick Rubin, a parte farsi vivo un paio di volte in studio, convincere la band di suonare come se fossero all’epoca di “Blood Sugar Sex Magik” e dire che ha pianto ascoltando le registrazioni. Un produttore ha anche il compito di consigliare la band non solo sulla linea da seguire, ma anche sul prodotto finale che si andrà a pubblicare.

Hanno detto che i brani pronti erano inizialmente 50 e che poi la scrematura ha portato all’utilizzo di 34 canzoni. Diciamo che quei “50 brani pronti” erano “50 provini con del potenziale”, perché per quanto bene si possa volere a Flea e soci, dobbiamo ripeterlo come un mantra: delle jam session strutturate rimangono comunque delle jam session.

Facciamola finita

Concludendo, se “Unlimited Love” era un forzato quanto discreto tentativo di sembrare il successore di “Californication” e “Stadium Arcadium” (un po’ come ogni reboot di Terminator che ignora i capitoli dopo il 2 o il 3), questo “Return of The Dream Canteen” ha il parosso di sembrare più genuino, più organico e ha il pregio di non cercare a ogni costo l’effetto nostalgia di cui Rick Rubin è orribilmente ossessionato. È tuttavia a tratti noioso, perché ha poche buone idee in un mare inutile di brani; il limite dei Red Hot Chili Peppers rimane l’eccesso di pubblicazioni: due dischi di 17 canzoni ciascuno, se non hai molta varietà, sono controproducenti.

Con 10, 12 canzoni complessive estrapolate da “Unlimited Love” e questo “Return of the Dream Canteen” Kiedis e company avrebbero potuto realizzare un album onesto, buono, praticamente privo di riempitivi.

Invece sono incappati di nuovo nell’errore di credere che il 90% di quanto composto scritto fosse valido. È una piaga orribile, perché ciò che non è ancora maturo puoi rifinirlo, rielaborarlo o semplicemente assegnargli un posizionamente di maggior valore in un guturo lavoro discografico. Ma no, i Red Hot hanno voluto di nuovo buttare nella mischia tutto e subito. Peccato.

a cura di
Andrea Mariano

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Andrea Mariano

Andrea nasce in un non meglio precisato giorno di febbraio, in una non meglio precisata seconda metà degli Anni ’80. È stata l’unica volta che è arrivato con estremo anticipo a un appuntamento. Sin da piccolo ha avuto il pallino per la scrittura e la musica. Pallino che nel corso degli anni è diventato un pallone aerostatico di dimensioni ragguardevoli. Da qualche tempo ha creato e cura (almeno, cerca) Perle ai Porci, un podcast dove parla a vanvera di dischi e artisti da riscoprire. La musica non è tuttavia il suo unico interesse: si definisce nerd voyeur, nel senso che è appassionato di tecnologia e videogiochi, rimane aggiornato su tutto, ma le ultime console che ha avuto sono il Super Nintendo nel 1995 e il GameBoy pocket nel 1996. Ogni tanto si ricorda di essere serio. Ma tranquilli, capita di rado. Note particolari: crede di vivere ancora negli Anni ’90.

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