Miniserie cercasi: eccone tre da recuperare

Miniserie cercasi: eccone tre da recuperare
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Da un po’ di anni le miniserie sono diventate un prodotto audiovisivo tra i più amati, ben costruiti e premiati in circolazione. Un boom dovuto principalmente al dilagante successo delle piattaforme in streaming che ha contribuito ad alimentare il business delle serie in edizione limitata. Per questa parte finale dell’estate, eccovi tre miniserie da recuperare che vi daranno uno sguardo diverso sul mondo

Un vuoto emotivo pervade inesorabile il cuore di tantissimi spettatori ed appassionati di serie tv quando queste spietatamente terminano il flusso della loro narrazione. Invasi, così, da quell’angoscia di incertezza e confusione che segue la fine di un bel telefim continuiamo imperterriti la ricerca verso la serie perfetta, in grado tanto quella precedente, di farci commuovere, divertire e, forse, spaventare.

Per non parlare di quella terrificante attesa tra le diverse stagioni di una serie tv, un’attesa che talvolta supera l’anno solare, e che, spesso, porta il pubblico ad abbandonare quello che potrebbe essere un bel prodotto. È tra un serial e un nuovo film che si insinua la miniserie.

Nel tempo sospeso delle vacanze estive in cui ognuno di noi cerca disperatamente di riempire il poco tempo libero rimasto con le mille attività dell’esperienza umana, recuperare magnifiche serie, quelle di cui tutti parlano o che nessuno guarda, potrebbe essere un’altra bella attività da aggiungere al palmares dell’ozio. Per chi, quindi, trova difficoltà nello stare al passo con le tv series lunghe e durature e ha voglia, però, di immergersi nella serialità, senza rinunciare alla raffinatezza cinematografica, ecco che le miniserie potrebbero essere un’ottima soluzione.

Di miniserie, negli ultimi anni, ne hanno fatte a bizzeffe. Toccano i temi più disparati e i generi più in voga. Affascinano sempre di più le grandi star di Hollywood le quali sembrano fare a gara per essere parte di queste maxi produzioni audiovisive, consapevoli della possibilità di una bella statuetta da vincere.

Le carte vincenti delle miniserie

Dal successo della “Regina di schacchi” a quello di “Undoing” e “Litte fires everywhere”, le miniserie stanno conquistando in modo crescente pubblico e critica. Questo exploit sopracitato ma non ancora approfondito potrebbe avere molteplici ragioni. Intanto, vi è da considerare la durata complessiva del prodotto che varia da appena 8-10 puntate rispetto alle pressoché infinite ventuno delle serie tv classiche.

Pertanto, l’arco narrativo delle miniserie si conclude relativamente nel giro di poco tempo non costringendo, così, lo spettatore ad attendere anni prima di conoscere l’esito delle storie raccontate. Inoltre, come già detto, attirano l’attenzione di star e attori incredibili facendone incrementare il cosiddetto hype oltre che aggiungendo qualità attoriali e artistiche di un certo livello.

Scisse, quindi, tra serialità e cinema le numerose miniserie in circolazione sono sicuramente l’intrattenimento da tenere d’occhio per questa fine estate e non solo. Attenzione, però, a scegliere per bene ciò che si guarda. Accade che sotto la promessa di una grande produzione alcune miniserie tradiscano le aspettative del loro pubblico, risultando pretenziose e poco coerenti.

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Tre miniserie da recuperare

Nel marasma dell’audiovisivo odierno pare, quindi, difficile scegliere con cura un prodotto che sia all’altezza di ciò che stiamo cercando, che sia ricco di significati, simbolismo e coesione narrativa. Qui di seguito dopo lunghe giornate a sbirciare, osservare e studiare infinite serie tv ecco tre miniserie da recuperare e per cui vale la pena spendere due parole ed intavolare un ragionamento.

Se i media sono una finestra sul mondo ed il cinema e l’arte in generale uno strumento per comprendere, analizzare e sperimentare la realtà, allora, selezionare attentamente cosa guardare può rappresentare una risposta alle difficoltà del mondo. Le serie diventano un compagno fidato, un amore tradito, consolazione per l’anima e attimi epifanici sulla realtà attorno. In questa calda estate, allora, se siete colmi di noia provate a dare una possibilità a queste tre serie di cui ne indaghiamo la natura.

“Years & Years” (2019): il racconto di un’apocalisse

Creata e sceneggiata dall’ autore Russel T. Davis, la miniserie “Years&Years” è stata trasmessa nel Regno Unito sulla BBC ONE. In Italia la serie è stata distribuita su Straz play a partire da marzo 2020. “Years&Years” segue le vicende di una famiglia situata a Manchester, i Lyons, nel corso di oltre 15 anni all’interno dello scenario britannico post Brexit.

I Lyons sono connessi tra loro da un legame davvero profondo nonostante l’eterogeneità che caratterzza le loro vite e le loro idee. Daniel, ragazzo omosessuale sta per sposarsi con il suo storico compagno, Rosie affetta da una malattia che la costringe su una sedia rotelle cerca gioiosamente un fidanzato che possa badare anche ai suoi figli mentre suo fratello Stephen prova a destreggiarsi tra la sua famiglia con la moglie Celeste, due figlie e il lavoro.

Edith, invece, è la sorella rivoluzionaria che torna raramente a casa e che fa delle battaglie sociale questioni estremamente personali. A capo della ciurma vi è la nonna Muriel che con la sua saggezza guida i nipoti verso la strada giusta.“Years&Years” procede rapida nella narrazione avanzando di puntata in puntata di parecchi anni mentre mostra come la famiglia subisca i profondi cambiamenti della società dovuti a discutibili decisioni politiche, crisi climatiche, economiche ed ideologiche.

Sullo sfondo, di fatti, si staglia la controversa figura di Vivienne Rock, interpretata magnificamente da Emma Thompson, una politica di stampo conservatore che racchiude pericolosamente gli ideali più populisti e beceri delle destre.

La famiglia Lyons al completo
Quello che vedo sullo schermo sono io

Da subito si percepisce come la miniserie creata da Russel T. Davis si differenzi dal resto dei racconti moderni. Cruda e feroce resta realista nella sua narrazione distopica. La realtà messa in scena in “Years&Years” può sembrare esacerbata ma concretizza pericolosamente paure, sfumature, previsioni e spinte del mondo attuale.

Il filtro ironico e leggero della serie va a smorzare il senso di radicata angoscia e ansia che inevitabilmente la visione della stessa lascia agli spettatori. Questo corrisponde alla presa di coscienza che la società fittizia minuziosamente narrata in “Years&Years” è la nostra, quella in cui respiriamo, quella in cui creiamo una famiglia e ci innamoriamo.

La miniserie, allora, tratta di un mondo alla deriva dove il divario economico tra i ricchi e i poveri si acuisce progressivamente e dove le scelte politiche della classe dirigente sono finalizzate alla mera sopravvivenza dei più forti. Gli emarginati continueranno a vedersi privati dei diritti fondamentali, gli immigrati a morire in preda alla rabbia furiosa del mare ed il tutto sotto una terrificante apocalisse climatica che condurrà la popolazione ad una decomposizone lenta.

In questa storia distopica la tecnologia rappresenta rispettivamente un alleato e un nemico dell’uomo: capace di corrodere le varie soggettività, essa è anche in grado di unire una famiglia in difficoltà e di evitarne l’isolamento. Sorpendentemente “Years&Years” ha anticipato molte delle situazioni a cui siamo andati incontro nel periodo pandemico raccogliendo, oltretutto, le spinte individualiste, conservatrici e contraddittorie già in erba nella società.

Racchiude, così, nella sua esposizione narrativa, il marcio nel mondo e lo prospetta in un futuro prossimo all’interno del quale i più deboli non avranno scampo. Il tutto avviene sotto la supervisione della villain per eccellezza, la Rock, esaltata all’inizio ma di cui viene successivamente riconosciuto il piglio autoritario e reazionario.

Perché guardarla

Nonostante il successo di critica “Years&Years” non ha ancora avuto il plauso che merita dalla collettività. Forse perché vedendola ci sentiamo, in qualche forma, pervasi da un imperante senso di colpa. Come se la serie fosse un sogno lucido o una sorta di inquietante previsione del futuro in cui noi stessi, in quanto individui e popolo insieme, non siamo in condizione di poter cambiare le sorti del nostro avvenire. Eppure, nel buio di ciò che avverrà, nella tragedia della morte e nella perdita dell’integrità ciò che non viene mai abbandonato, in questa miniserie, è il senso di amore.

L’amore è la bussola che gioca con i protagonisti e che li avvicina anche quando sono distanti e nelle più assurde difficoltà. Un sentimento che accomuna tutta la famiglia a prescindere dal loro trascorso e dalle loro differenze. Amore per i rispettivi fratelli e sorelle, per i propri compagni e compagne, per i figli e per i nonni. Si tratta di un amore intenso, duro e spesso irrazionale ma che smuove la realtà attorno e che è all’altezza di modificare gli eventi nel bene e nel male. Un affetto, inscenato da “Years&Years”, il quale ha una vera e propria portata rivoluzionaria capace di difendere la loro onestà emotiva.

Nel caotico mondo dove tecnologia, crisi climatica e politica spicciola prendono sempre più piede, ciò che resta ai personaggi di “Years&Years” e di riflesso a noi stessi è la memoria. In un ultimo grido di speranza, allora, ci si aggrappa deboli ai frammenti dei ricordi che si hanno del passato. È grazie a quelli che i Lyons trovano un equilibrio anche nella morte ed è proprio a quelli che noi spettatori, in quanto cittadini, dobbiamo stringerci per poter cambiare, anche in piccola misura, le sorti tragiche del mondo.

Emma Thompson interpreta Vivienne Rock
“I may destroy you” (2020): il potere di distruggersi

La miniserie creata per BBC e Hbo dalla poliedrica autrice Michaela Coel dal titolo “I may destroy you” è sicuramente una delle serie da recuperare se si desidera affrontare un viaggio nella cruda realtà della violenza. “I may destroy you” al di là di un vero e proprio successo di critica e numerose candidature ai premi per la televisione – seppur snobbata dai famigerati Golden Globenon ha ancora trovato la giusta distribuzione in Italia. Che peccato, ma non soprende come il palinsesto nostrano possa bypassare una serie che, a dirla tutta, mette in evidenza il disagio e l’inettitudine umana con brusco realismo.

Michaela Coel racconta una storia di violenza attraverso il filtro della leggerezza, consapevolmente consegnando agli spettatori e alle spettatrici un ritratto glaciale e paralizzante della società moderna e di una generazione che fatica a comprendere i confini del proprio esistere. Destabilizzante e caotica “I may destroy you”rifiuta da subito le sue intenzioni buoniste per aprire un terrificante varco sulla nostra realtà, fatta di dipendenze, apparenza e una demarcazione labile tra bene e male.

La star del web Arabella, dopo aver avuto una considerevole fama con il suo romanzo d’esordio, trova molta difficoltà nel portare a termine il suo secondo lavoro a causa delle pressioni esterne della sua casa editrice. Tornata a Londra, in seguito ad una breve parentesi italiana dove avrebbe dovuto trovare la giusta ispirazione per scrivere, si ricongiunge con i suoi amici per una serata all’insegna del divertimento.

Arabella, però, si ritroverà il giorno dopo senza ricordare gli eventi della sera precedente con un livido in fronte realizzando, ben presto, di essere stata drogata e stuprata. La protagonista dovrà ricostruire insieme ai suoi compagni gli eventi passati per dare un senso a quello che potrà essere il suo futuro.

Michaela Coel: Arabella
Il volto della violenza

Michaela Coel decide di portare sullo schermo la sua storia personale di violenza sessuale romanzandola e adattadola al discorso del Me too e della Cancel Culture. Arabella, a causa dello stupro, si rende portavoce di una serie di donne che non hanno la possibilità e gli strumenti per poter dire la loro verità. Ma questa presa di coscienza della violenza subita non è una strada lineare e coerente, tutt’al più il suo è un percorso fatto di battute d’arresto, di sbagli e di comportamenti surreali.

Arabella, intanto, inizia a comprendere i confini precari del consenso riconoscendo nelle sue relazioni passate e presenti comportamenti al limite dell’integrità. I personaggi di “I may destroy you” fanno i conti con i loro demoni dimostrando spesso un’individualità instabile e stanca frutto di una generazione frammentata e vittima di un progressivo manicheismo dove vige la condanna o la celebrazione, senza alcuna possibilità di trovare una via di mezzo.

Tuttavia, uno spazio neutro esiste, tra la fama e l’oblio, all’interno del quale si colloca Arabella, la sua coscienza, le sue scelte ma dove s’incontrano anche tutti i complessi personaggi di questa cruda serie, mai veramente puri e mai veramente malvagi. Forse è questo il vero volto della violenza: un’opaca bolla dove sguazzare quando si rigetta l’amore. Lo stupro raccontato da “I may destroy you” colpisce poiché non visibile e ferisce chi guarda perché mostra gli effetti deleteri su coloro che lo affrontano.

Perché guardarla

Oltre le considerazioni sociali, “I May destroy you” si presenta come un prodotto girato e scritto minuziosamente e che dimostra l’incredibile talento della sua creatrice già intravisto nella serie “Chewing gum”. La Coel intavola una discussione sul consenso senza pretendere di delinearne i confini definitivi ma esigendone un’analisi del suo raggio d’azione. Il fine è, quindi, un necessario confronto tra vittime e carnefici. Inoltre, “I may destroy you” apre una conversazione diretta con il suo pubblico portandolo a mettere in dubbio le proprie convinzioni.

Siamo dalla parte dei deboli o di chi prevarica? Ma, soprattutto, riusciamo a riconoscere l’uno e l’altro o ci facciamo condizionare dai nostri ideali a tal punto di trasformarci noi stessi nel nostro peggior nemico? È ciò che succede ad Arabella che è, appunto, vittima e carnefice di sé stessa e per la quale si prova una combinazione di empatia e disprezzo.

Dare una possibilità a questa serie significa non solo riconoscere le prospettive deleterie della società ma, allo stesso tempo, provare a trovare la luce nel buio della violenza velata. L’ultima puntata di “I may destroy you” è una chicca incredibile della serialità: dopo assurde peripezie, relazioni tossiche e verità difficili da sopportare Arabella deve venire a patti con ciò che è successo. Andare oltre il trauma vuol dire continuare ad esistere come persona ed individuo ma non significa, in alcun modo, dimenticare per sempre. “I may destroy you” è una perla meravigliosa per animi in difficoltà.

Michaela Coel: Arabella
“Pure” (2019): una serie sulla malattia e la vergogna

“Pure” è una miniserie britannica composta da sei episodi trasmessa nel 2019 da Channel 4 e basata sull’omonimo libro di Rose Cartwright. In Italia “Pure” ha trovato spazio, a partire dall’ottobre 2020, sulla piattaforma streaming Raiplay. La miniserie, passata in parte in sordina, ha avuto una considerevole approvazione di critica grazie alla sua capacità far luce, in maniera pressoché ironica, sulle malattie mentali.

“Pure”, di fatti, nella brevità nella sua narrazione riesce a dare un quadro completo della difficoltà da parte dei soggetti affetti da disturbi psichici di integrarsi in una società che ci vuole perfettamente sul pezzo ma, soprattutto, sempre sani. Kirstie Swain rende visibile sullo schermo, attraverso immagini perturbanti, il disagio della protagonista nel prendere coscienza della sua malattia e nell’affrontare il giudizio altrui sia in un piccolo paesino scozzese che a Londra.

Marnie (Charly Clive) è una giovane donna che ha pensieri osceni e fantasie sessuali con chiunque abbia una conversazione con lei e che riguardano perfino la sfera familiare e amicale. In preda al disagio di immaginare ciò di cui più si vergogna, Marnie scappa dalla Scozia per cercare di ricostruire un’esistenza “normale” e approda nella cosmopolita Londra.

Malgrado provi a reprimere il suo disturbo, le immagini disorientanti prodotte dalle sua mente continuano costanti, compromettendo l’ambito lavorativo come quello personale. Allora, forse, la soluzione non è scappare dalle proprie origini o dalla propria famiglia ma analizzare nel profondo la natura del suo problema. Alla fine della fiera, infatti, scavarsi dentro e chiedere aiuto sembra essere meglio che reprimere sperando che il dolore svanisca.

“Pure”
Perché guardarla

Marnie, così, trova la forza per dare forma e nome a ciò che le accade grazie al supporto di un esperto. La ragazza soffre di un raro disturbo ossessivo-compulsivo che le provoca il sorgere di pensieri cosiddetti proibiti. Una volta giunta a questa conclusione, la ragazza può provare a condurre una vita normale e a circondarsi di persone che per davvero siano in grado di sostenerla e amarla al di là di ogni complicazione.

“Pure” dà prova che la normalità ha un perimetro provvisorio il quale muta a seconda delle diverse radici culturali. In più, la miniserie britannica invita il pubblico a ragionare su un concetto chiave per stabilire dei rapporti sani con l’altro essere umano: i nostri problemi, le nostre malattie non ci definiscono come persone. Di conseguenza questi non devono fungere da giustificazione per determinati comportamenti poco onesti. Marnie, nel suo viaggio verso la conoscenza di sé, dovrà capire che il suo agire influisce sulla vita altrui, che chi la amerà lo farà a prescindere dal suo disturbo e perché si dimostra in quanto una persona perbene.

Breve e diretta “Pure” è una miniserie a cui dare una possibilità soprattutto per la sua capacità di esaminare l’origine ambigua e tortuosa della mente umana spesso succube delle complicazioni sociali rigurdanti il sesso, la vergogna e la consapevolezza di sé. “Pure” è un viaggio per Marnie ma contemporaneamente è un viaggio per noi: Cessiamo di inventare pretenziose risposte alle nostre sensazioni ma cominciamo a porre delle domande su di noi.

a cura di
Noemi Didonna

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