miomojo: la bellezza dell’eco-friendly

miomojo: la bellezza dell’eco-friendly
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Intervistiamo Ilaria Malitesta, responsabile della comunicazione del brand di borse sostenibile e vegan miomojo. Tra le domande ci perdiamo a riflettere sulla tradizione, sostenibilità e sulla comunicazione di questi.

Come è nato miomojo?

Miomojo è nato quasi 10 anni fa, verso la fine del 2012, dall’idea della sua fondatrice, Claudia. Lei aveva lavorato diversi anni nel business internazionale. Dopo anni di carriera, però, si rese conto di non voler più riversare nel mercato indiscriminatamente delle cose, oggetti, ecc. Voleva invece contribuire in maniera più impattante, sempre allineato ai suoi principi. Cioè il rispetto del pianeta e degli esseri viventi.

Lei da sempre appassionata alla moda e soprattutto dal design ma vedeva che spesso erano realizzati a discapito di altri esseri viventi e del pianeta quindi non voleva più contribuire, anzi voleva trovare un modo per creare un’alternativa che fosse valida. Il percorso è stato molto variegato.

All’inizio venendo in contatto con la realtà di Animal Asia, un’associazione per i diritti degli animali che nello specifico si occupa di salvare gli orsi della bile, fenomeno molto diffuso in Asia, appunto.

Conoscendo loro, ancora prima di creare l’azienda, desiderava che l’aiuto e il supporto degli animali fosse parte integrante del nostro business. Quindi da subito miomojo è nato donando parte del proprio ricavato agli animali. All’inizio solo Animal Asia anche per una questione economica. Si poteva supportare una sola associazione e adesso, invece, riusciamo a sostenerne molte di più avendo aumentato negli anni le possibilità.

Adesso non sosteniamo solo associazioni animaliste ma anche, per esempio, 1% For The Planet con progetti rivolti alla tutela per l’ambiente. Abbiamo iniziato con la produzione di astucci, sempre con materiali vegani come gran parte del team e la fondatrice e possibilmente riciclati in modo tale che avessero l’impatto ambientale minore possibile.

Negli anni, sviluppandosi anche esternamente, la società ha sviluppato i suoi ideali e quindi la possibilità di ricerca anche i materiali sono migliori, più sostenibili.

Quindi siete nati producendo astucci?

Sì, in realtà ancora adesso gran parte della nostra produzione vira sui prodotti piccoli. Le borse che vedi online sono arrivate successivamente. Prima abbiamo iniziato con gli astucci piccolini che si vendono ancora ma sono prettamente offline. In Italia li puoi trovare da Tigotà ma è un’altra tipologia di mercato e di target, sempre inerente ai nostri principi ma è un’altra tipologia commerciale.

Quanto è stato complicato inserirsi nel mercato? La vostra azienda, alla fondazione, si è dovuta inserire nel mercato presentando una tipologia di prodotti, vegan, appunto, che non era normale all’epoca…

Esatto, è vero. Infatti quello che si dice spesso a noi del team è che se oggi si va a vendere un prodotto vegano tutti sanno cosa vuol dire. Magari c’è colui che storce il naso ma sa cosa significa e anzi il tema è caldo in questo momento e favorisce la vendita.

Per quanto forse la consapevolezza sia arrivata nella maniera peggiore perché dopo il COVID-19 c’è stato una sorta di risveglio collettivo, una presa di coscienza maggiore, ma in ogni caso, come dici tu all’inizio è stato molto più difficile. Claudia aveva già lavorato nel business quindi aveva le sue competenze ma ovviamente presentare un prodotto dicendo: “questo è riciclato con impatto inferiore alla plastica…” sicuramente non è stato facile. Quindi c’è stato anche tanto lavoro da parte sua di “educazione” del cliente che, non per mancanza di interesse ma di conoscenza non sapeva di cosa si trattasse. Oggi sicuramente è molto più facile approcciare un cliente dicendo che abbiamo un prodotto cruelty free.

Abbiamo notato che la maggior parte delle vostre borse hanno linee semplici, minimal e spesso di un unico colore. È una scelta dovuta al concept del brand o perché i prodotti innovativi che usate non permettono di applicarvi sopra stampe, cuciture decorative …?

È la prima ce dici. Ormai la tecnologia ci consente di fare qualsiasi cosa dal punto di vista estetico però lo stile dei prodotti è dato dal gusto personale di Claudia ce si ispira molto di più a linee dall’Europa del nord quindi molto pulite, lineari, con colori per niente “sparaflesciati”. Cose molto più tenui e discrete che possono essere adattabili a più occasioni.

Avrai visto che abbiamo la parte più casual che sono gli zaini nei materiali riciclati e poi la linea Premium un po’ più elegante che è ovviamente più costosa perché i materiali che servono per produrla sono più innovativi e quindi per definizione più costosi. La quantità ridotta di colori, oltre al fatto ce non vogliamo sovrapprodurre c’è anche il fatto che non siamo un’azienda enorme che ci permette di avere un’economia di scala e produrre ingenti quantità e varietà che a lungo andare sicuramente non è sostenibile.

Zaino “Penelope” della linea casual.
Borsa “Giorgia” della Prima Linea in Apple Leather

Preferiamo restare nell’ottica del produrre quanto viene richiesto tanto che adesso che abbiamo questa linea particolare andiamo più velocemente sul sold-out e quindi per la prossima riadattiamo le quantità. È sempre un work-in-progress.

Qual è il processo creativo del vostro team di design? Da dove prendete ispirazione? e il fatto che debbano essere eco-sostenibili influenza in qualche modo la linea delle borse? Tendete a seguire le mode o a crearne?

Come dicevo tanto parte dal gusto personale della fondatrice. Noi abbiamo internamente il design team che studia sicuramente i trend del momento per quanto riguarda i colori…che poi vengono sempre rivisitati per essere vendibili. L’ispirazione dall’esterno c’è sicuramente, tanto gusto personale e quello che ci mette ognuno di noi perché siamo tutti abbastanza coinvolti.

Vengono fatte delle prove a livello di funzionalità da parte di noi membri al di fuori del team di design. Noi poi facciamo un report in cui comunichiamo tutto quello che non va, se la zip non si chiude bene o se qualcosa è scomodo.

C’è molto coinvolgimento in tal senso e alla fine il prodotto finale è il risultato di un lungo processo che parte dal design team ma che poi viene testato e quindi si riesce a vedere qual è la cosa più funzionale. Ma ovviamente si tiene conto della visione che parte da Claudia, avendo studiato design, se ne tiene conto.

Il vostro scopo, a quanto abbiamo capito, è quello di fare moda ma con gentilezza, sarebbe interessante condividere quest’opinione anche con brand che non lo fanno. Come pensate di espandere il vostro “verbo” in futuro?

Come dicevo prima in questa fase siamo favoriti dagli accadimenti esterni. Puoi vedere che letteralmente qualunque brand oggi di pelletteria, dal più piccolo al più vasto, ha una linea in pelle vegana, eco-firendly, sostenibile… è proprio nell’interesse dei brand farlo anche se, come dicevi tu, non hanno il principio di fare moda con gentilezza (intesa verso gli animali e l’ambiente).

In questo contesto è come un salto sul carro del vincitore e lanciano loro stessi linee così. In questo momento la comunicazione è più facile, immediata. Non ti nego che anche sui social ci arrivano messaggi relativamente aggressivi in cui ci viene detto che non siamo veramente sostenibili perché i nostri prezzi sono troppo alti e dovrebbero essere accessibili a tutti.

Anche lì si tratta di educare e spiegare con pazienza quello che facciamo e motivando anche i nostri prezzi che spesso sono oggetto di critica. I materiali che usiamo sono innovativi e quindi poco diffusi, poco reperibili, la lavorazione è ancora nuova ed essendo un’azienda piccola non abbiamo un’economia di scala a cui appoggiarci, noi stessi siamo pochi e lavoriamo tantissimo.

Ci appoggiamo soltanto ad artigiani a cui facciamo anche fare dei controlli in tutta la catena produttiva. C’è tantissimo lavoro dietro quella che uno potrebbe pensare una semplice borsa. Abbiamo fatto anche analizzare l’impatto ambientale di un paio di nostre borse una in apple e una in cactus leather da un ente esterno per non cantarsela e farlo certificare, l’ente è Bcom Evaluation System che valuta l’impatto ambientale e i risultati sono pazzeschi.

La borsa in cactus leather rispetto ad una da pelle di animale ha un risparmio d’acqua dell’oltre 90%. Il cactus essendo una pianta che non ha bisogno d’acqua, si secca al sole… ha un processo super sostenibile. Le critiche che riceviamo quindi si fermano lì perché i dati ci sono. Anche da un punto di vista medico e ambientale i report sono ovunque quindi siamo sicuramente favoriti.

Dal punto di vsita prettamente comunicativo utilizziamo soprattutto Instagram, che è il nostro canale di comunicazione principale. Ovviamente poi io mando le newsletter, abbiamo un blog, Facebook, Linkedin… in ognuno poi ci si approccia in maniera diversa però il contenuto dei messaggi è quello. Instagram è il nostro biglietto da visita. Ad eventi dal vivo io ho partecipato ad un’intervista per vinokilo quando sono venuti vicino a Bergamo.

Prendiamo parte a vari eventi dal vivo ma sai con il COVID-19 abbiamo potuto fare poco. Dovevamo andare anche alla Los Angeles Vegan Fashion Week ma è saltata. Speriamo per quest’anno o quello dopo di partecipare. Tra i nostri obbiettivi c’è anche quello di partecipare ad eventi così ma al momento non ce ne sono.

Vorremmo sicuramente approfondire il faccia-a-faccia ora che c’è più richiesta delle nostre borse. Le nostre borse erano, per esempio, all’interno di un pop-up Store in Giappone insieme ad altri prodotti sostenibili e la nostra corrispondente ci diceva che molti ne erano affascinati e volevano saperne di più ma ovviamente i gestori dello store non vendendo in prima persona dal brand non avevano modo di raccontare bene la nostra realtà.

Questo è uno spunto per noi per creare qualche grafica in più o andare noi di persona a rispondere alle domande.

In un paese come l’Italia in cui la tradizione sembra essere intoccabile, come si può riuscire a rieducare non solo il consumatore ma anche il designer di moda che non necessariamente deve prendere come modello gli artigiani del pellame. Se pensiamo, per esempio, alla lavorazione delle borse a Firenze…?

Ti direi quello che ho detto prima. Noi abbiamo varie posizioni aperte ora, il team si espande e stanno venendo molte persone qui in ufficio che ci dicono che lavorano con la pelle e che non ne possono più di contribuire all’utilizzo degli animali. Quindi c’è molto feedback anche da parte di designer che sono interessati a scoprire qualcosa di nuovo.

La tradizione è un po’ una trappola per questo ma dev’essere superata. Lo scorso anno abbiamo ricevuto una diffida da parte dell’Industria della Pelle Conciaria Italiana perché usavamo il termine pelle. Loro dicevano che era improprio all’utilizzo e si è risolto tutto tranquillamente perché in inglese si può usare “leather” e noi non diciamo “pelle”.

Non era una scelta fatta perché volevamo dire che la nostra pelle è bella quanto quella. Culturalmente siamo abituati a pensare che la qualità di un prodotto sia relativo all’uso della pelle. In realtà chi usa le nostre borse dice che si trova anche meglio e che non vede differenza. Non vogliamo proprio accostarci alla pelle anche per questo, ne disprezziamo le origini e la sua resa è quella che ha funzionato per decenni e noi puntiamo a quella.

Uno dei vostri motti recita “We believe the best way to built a better world is to design it”, dite che almeno la bellezza riuscirà a salvare il mondo?

[ride]. Bellezza non solo dal punto di vista estetico ma simboleggia anche la filosofia dei nostri prodotti che vogliono essere belli e accattivanti di design perché devono essere venduti poi uno deve sapere che sono vegani, cruelty-free e a basso impatto ambientale e questo è un plus però per noi è importante uscire dal target nostro solito, che è fedele, siamo in primis vegani, ma non vogliamo limitarci a loro.

Quindi sì, assolutamente, il prodotto per noi dev’essere bello perché vogliamo offrire qualcosa di gradevole e poi che abbia il plus della sostenibilità. Bellezza intesa anche come bontà, quindi.

Riuscite a spiegare meglio ai lettori di TheSoundcheck.it dove devolvete una parte dei vostri profitti e come state aiutando le associazioni di animali nello specifico?

All’inizio siamo partiti con Animal Asia che Claudia conosceva direttamente, faceva volontariato per loro. Inizialmente siamo partiti da lì e lei ha fatto delle settimane di volontariato. Dopodiché quando si è creata l’azienda dopo di loro abbiamo iniziato a dare il 10% del nostro profitto netto ad una serie di associazioni.

Ne nomino alcune: Animal Asia, Four Paws, Mercy For Animals… abbiamo cercato di differenziare anche in base agli animali da aiutare e alle zone geografiche dove questi si trovano. Abbiamo quindi rispettivamente gli orsi, i grandi felini, animali da fattoria e tutti quelli che venivano da fattorie.

Alcune delle associazioni a cui miomojo devolve il 10% dei guadagni per borsa

Diamo il 10% che poi non è solo questo, il team, prima del COVID-19 è andato diverse volte in sede nei santuari degli animali che provenivano da fattorie a fare volontariato. Oltre a queste sosteniamo anche realtà più piccole che sono magari centri di rifugio, piccoli santuari sempre nel mondo.

In un articolo avevano scritto “le borse che salvano vite due volte” una perché non usiamo materiali di provenienza animale e poi perché concretamente li supportiamo. Nel nostro sito ogni qualvolta che un utente acquista una borsa miomojo sceglie l’associazione a cui devolvere il 10% del suo acquisto, quindi, se deve pagare una borsa 60 euro al check-out sceglie per esempio Mercy For Animals e vuol dire che di quei 60 euro il 10% lo diamo direttamente a loro.

Coinvolge direttamente il consumatore anche in base alla parte del mondo a cui è più interessato devolvere i soldi.

Abbiamo visto che avete vinto il PETA e il Luxonomy. Dev’essere stato un bel traguardo.

Il Luxonomy è stato proprio inaspettato perché non ci siamo candidati. Loro ci conoscevano e noi li avevamo come contatti della press e ad un certo punto ci hanno scritto “avete vinto” e siamo rimasti piacevolmente sorpresi [ridiamo].

Per il PETA Award lo sapevamo perché avevamo visto (noi facciamo molta attività di bench mark) anche altri competitors che avevano ricevuto questo premio. Quindi li abbiamo contattati e chiesto come ci si poteva candidare e loro ci hanno detto che eravamo già inclusi nelle loro liste dell’anno.

Durante la selezione noi abbiamo dovuto fornire moltissime informazioni dettagliate su cosa facciamo, come lo facciamo, i nostri produttori, i fornitori… un processo un po’ lungo che ci ha portato poi alla vittoria. Un bellissimo traguardo perché PETA è l’organizzazione più grande in difesa degli animali e questo ci ha aiutato anche per la stampa.

a cura di
Sara Sattin

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